Castelli di sabbia
un racconto di Federica Helferich
L’estate è finita, ormai. Gli adulti al mare sono tutti stanchi: avvolti nella loro pelle color maialino arrostito, li vedo trascinare i piedi nella sabbia come un ubriaco a una festa che non ha più niente da offrirgli. Alcuni non si preoccupano nemmeno di nascondere la loro contentezza per l’imminente partenza di fine stagione. Ammazzano il poco tempo rimasto raccogliendo oggettistica balneare di presunta proprietà della prole.
Anche i bambini sono svogliati: a questo punto della parabola estiva le onde si rivelano improvvisamente troppo rumorose, e il chiosco non ha più nuovi gusti di gelato da offrire. La maggior parte di loro ciondola nei paraggi dei genitori, alimentando il reciproco malumore. Soltanto Delia ha ancora voglia di aiutarmi a costruire Winterton, il mio villaggio-fortezza, in qualità di sovrintendente ai lavori di costruzione del fossato nonché di delegata al reperimento delle ottantanove conchiglie bianche che, una volta debitamente sminuzzate, comporranno il mosaico del pavimento della corte principale.
Io, che non sono né adulto né bambino, continuo a lavorare al bastione nord del villaggio-fortezza, lottando contro il tempo.
Quel giorno, oltre all’estate, era l’acqua calda delle docce del Blue Hyppocampus a scarseggiare. Io ero in spedizione lì accanto, perché la sabbia bagnata da acqua dolce e crema solare sciolta ha una compattezza perfetta ed è un ottimo calcestruzzo (molto più della sabbia bagnata d’acqua di mare – ma, come sempre, so che nessuno mi crede). Avevo chiesto alla mia aiutante di restare a sorvegliare e proteggere Winterton dal Malvagio Giovanni e i suoi amici squilibrati, perciò Delia non era con me quando successe.
Mi ero appena accoccolato sulla sabbia, al riparo dietro una piccola palma ingiallita, quando vidi la Signora Giuffrè che risaliva la spiaggia, la testa china, un borsellino in similpelle arancione in mano, diretta alle docce. Sembrava che stesse soffrendo molto – tutto, su di lei (il sale sulla pelle), sotto (la sabbia) e sopra (il sole) era intenzionato a bruciare il più possibile, e sapevo che questo la Signora Giuffrè non poteva sopportarlo. La conosco bene, ormai, e so che tutto ciò che è oltre misura le risulta semplicemente intollerabile: fin dal giorno in cui fermò mia madre in spiaggia per chiederle – un sipario di rughe aperto su un ghigno contrabbandato da sorriso – se non fosse uno scandalo che in Italia non esistessero “nel 2023, spiagge appositamente pensate per ragazzini con le esigenze di suo figlio”.
La conosco bene, la Signora Giuffrè, perciò sono sicuro che non fu nient’affatto felice quando, dopo la faticosa traversata della battigia, arrivò sullo spiazzo antistante le docce e trovò il bagnino Camillo (“un bravo figliolo, ma che scarso conversatore”), pronto ad avvertire tutti che quella, “per problemi tecnici”, sarebbe stata “l’ultima razione di acqua calda”. E immaginai anche il suo disappunto e la sua indignazione quando, gli occhi ancora abbacinati dal sole, si voltò e vide accanto a sé la Signora Bruno.
Come i Signori feudali che avrebbero abitato Winterton, la Signora Giuffrè e la Signora Bruno sono a capo di due opposte fazioni del Blue Hyppocampus. La Signora Giuffrè occupa il settimo ombrellone da destra, e la Signora Bruno quello da sinistra, ovviamente della prima fila. Un giorno Prandeek, il mercante di fiducia del lido, commise l’errore di mostrare a entrambe un anello d’argento tempestato di quarantasette piccoli rubini grezzi: dopo essersi entrambe rifiutate “per cortesia” di acquistare il gioiello, ciascuna aveva sguinzagliato il proprio nipote a inaugurare un nuovo e segreto giro di contrattazioni e strappare l’anello alla fazione nemica. Quella volta, come altre, si era rischiata la guerra.
Nascosto dietro la palma continuavo a riempire il mio secchiello di sabbia bagnata, e osservavo tutto: la Signora Giuffrè aveva visto la Signora Bruno, e la Signora Bruno aveva visto la Signora Giuffrè. Le due donne si sorrisero e i loro denti bianchi scintillarono. La temperatura dell’aria aumentò di almeno 1.5°C, e fu intavolata una prima trattativa cortese: Prego, cara. Ci mancherebbe, prima lei. No, non scherziamo. Suvvia, gioia.
Nel frattempo, dietro alle Signore, si era raggruppato un manipolo di persone. Non si trattava dei loro eserciti, ma di ulteriori pretendenti della doccia, di certo meno inclini a scrupoli e cortesia. Ridendo – o mostrando i denti, che nel nostro lido è la stessa cosa – qualcuno propose di sacrificarsi, per togliere la Signora Bruno e la Signora Giuffrè dalle ambasce, ma dalla ferocia con cui le due cui si voltarono all’unisono verso la folla fu chiaro che, piuttosto, avrebbero spartito la medesima razione d’acqua.
E così stabilirono di fare. Le vidi avanzare insieme verso la doccia. Il loro passo adesso non era più infermo, da estate morente, ma vibrante, pugnace – si sarebbe detto che l’estate fosse appena iniziata. Il desiderio che non mi vedessero parve esaudirsi: nessuna delle due mi degnò di uno sguardo, entrambe in militare silenzio. Evidentemente, gli accordi prevedevano che sarebbe stata la Signora Bruno a inserire il gettone e godere per prima del getto d’acqua dolce, forse in virtù di un vecchio debito in sospeso, di un antico conto di guerra da saldare – ma a chi era andato poi, quell’anello tempestato di rubini? La folla invece, rimasta senza acqua e privata dello spettacolo del duello, si era dispersa, e ciascuno aveva fatto ritorno al proprio ombrellone.
Pochi istanti dopo l’entrata in doccia della Signora Bruno, la Signora Giuffrè dovette realizzare però che nessuna delle due avrebbe saputo come stabilire esattamente quanti secondi d’acqua spettassero all’una e quanti all’altra. Io ero sicuro che una doccia durasse 23 secondi esatti, ma l’intervento di un ragazzino troppo cresciuto per giocare con secchiello e paletta a risolvere una questione di tale importanza non era certo opportuno. Così, mossa dal suo istinto di sopravvivenza e dal suo senso di giustizia, la Signora Giuffrè, con un vago e imperioso cenno della mano, decise di infilarsi subito in doccia.
Fu allora che successe. La bocca della Signora Bruno prese la forma di una O, ma non ne uscì alcun suono, né il suo corpo ostacolò in alcun modo l’ingresso della Signora Giuffrè. Per un istante le due donne rimasero immobili, poi alzarono lo sguardo verso il getto d’acqua, come a ricordarsi perché erano lì, insieme, e infine non poterono far altro che guardarsi negli occhi e stringersi ancora. L’acqua le bagnava copiosamente, trapuntandole di migliaia di gocce rotonde. Presto il corpo dell’una non fu più distinguibile dal corpo dell’altra. Due identiche masse di carne, strette in costumi interi di lycra, che godevano dello stesso getto, e non solo. Fu il luccichio del rubino a farmi notare la mano della Signora Giuffrè che afferrava uno dei seni massicci e declinati della Signora Bruno, mentre la Signora Bruno le passava un dito sulle labbra.
Quella doccia, non so perché, durò molto più a lungo del solito.
Quando il getto d’acqua si interruppe e i due corpi si staccarono, rimasi immobile ancora un po’, come intrappolato nella sabbia sempre più melmosa. Mi rannicchiai dietro alla palma e contai duemilaquattrocentoventidue granelli – poi presi coraggio, ritirai paletta e secchiello, e corsi verso il mio ombrellone.
Quando arrivai, era rimasta solo una piccola parte del bastione nord. Delia, in lacrime, puntava l’indice della sua piccola mano verso la Signora Giuffrè: nel tragitto di ritorno verso il settimo ombrellone da destra, la Signora era tragicamente inciampata su Winterton. La vidi aprire il borsellino arancione, far cadere qualche moneta sul palmo di Delia, accarezzarle i capelli (“Va’, cara, va’ a comprarti un gelato e non pensarci più, tanto l’estate è finita”). Nell’altra mano, l’anello di rubino scintillava al sole. Poi alzò la testa e i nostri sguardi si incrociarono. Fece un sorriso feroce e mi pizzicò la guancia destra. Le sorrisi anche io, in segno di sfida. Entrambi sapevamo che io solo, tra tutti, avevo contato esattamente i secondi di quell’ultima doccia dell’estate.