un racconto di Alessandro Fabris

Spingo con tutte le forze, ma non riesco a far uscire dalla mia bocca alcun suono, se non mugugni che io per prima non so decifrare. Loro li incontro subito, appena apro la porta, stasera come ogni sera. Lui dice: «Come va? Arrivi solo adesso?». Io vorrei spiegare. Ma dentro di me, sola, passo interminabili momenti a costruire pensieri, immaginare chiarimenti, pormi domande con cui vorrei intessere conversazioni, interessandoli, per ritrovarci. Invece non riesco a parlare, davvero, di tutto questo. Anche il piccolo mi guarda, e non capisce dove sono stata in queste ore in cui, per lui, non sono esistita. Non so proprio cosa possa significare, per il piccolo, la parola “lavoro”. Lo fisso, mi impongo un sorriso: voglio che sappia che sto cercando di, che non è mia volontà, che questi orari, e anche quando ci sono e come se; ma non mi è possibile, le labbra non si coordinano, la lingua rimane immobile, i muscoli attorno alla bocca si contraggono per spingermi a dire altro o a non dire, a farmi sentire sconosciuta; e rimango afona, nella sostanza; solo questi stupidi, disperati mugugni. Lui rimane dov’era, ai fornelli, illuminato dalla luce della cappa di aspirazione: non ha avuto il tempo e la voglia di girarsi e guardarmi. Mi immagino tra un attimo entrare nella camera del rilassamento, prima di tutto, prima di destinarmi a loro e sedermi per la cena, subito dopo la doccia che farò in un istante.


Iva? Tra pochi giorni terminerà il periodo di prova. Quando ci era stata presentata ero rimasto stupito dalle motivazioni e dall’entusiasmo non solo tuoi, ma di tutto il Consiglio direttivo: dovevamo impiegarla in un ambito diverso rispetto agli incarichi che avevamo dato in passato a profili simili al suo e le sue caratteristiche mi parevano inadatte al lavoro di cui avevamo bisogno. Devo confessare che le competenze di base di Iva sui temi legali mi avevano fatto sperare in un aiuto, qualora ne avessi avuto bisogno. Inoltre il suo spazio di auto apprendimento è andato oltre le mie aspettative. Durante le prime settimane è riuscita a entrare nei meccanismi delle procedure, integrandosi in fretta con i colleghi, e forse proprio la sua velocità nell’imparare è stata l’origine di qualche iniziale malumore da parte di altri impiegati. Devo però dire che è stata capace di sdrammatizzare: è autoironica, e quindi, dopo i primi tempi di assestamento, è diventata presto parte della squadra. L’apice della soddisfazione l’ho raggiunto quando le ho assegnato quella monumentale ricerca d’archivio per il ricorso che abbiamo ricevuto all’inizio dell’estate. Qui negli uffici erano tutti in ferie e c’era la necessità di chiarire in fretta la gravità della questione, anche per far calmare i grandi capi che si erano agitati non poco. Ho rischiato non facendo rientrare nessuno dalle vacanze, incaricando Iva di spulciare ogni singolo file nelle reti informatiche delle aziende di database as a service di mezzo mondo, forzando anche sistemi criptati.


Il piccolo gioca per terra con il tablet: compone le costruzioni per inventare una caserma dei pompieri su un pianeta alieno, e dà per scontato che io non possa divertirmi con lui. I tegami sfrigolano sul fuoco: gli odori di olio, aromi, brodo saturano l’aria, dandomi una leggera nausea, assuefatta come sono al sapore del caffè dei distributori in ufficio. Lui controlla la pentola a pressione e prepara la tavola; nessuno mi bada; sono impalata nel mezzo del soggiorno, ancora vestita come quando sono uscita da casa molte ore fa. Provo ad articolare parole, per lo meno delle lettere, parto dall’essenziale per riuscire piano piano a dire qualcosa, ma neanche un minimo di senso passa dalle corde vocali. Vado nel ripostiglio, mi tolgo le scarpe, e in solitudine tento almeno di mugolare. Salgo le scale, e in camera mi sfilo la gonna, la giacca e la camicia. Lascio tutto sopra il letto. Mi strucco, mi lavo il viso e le ascelle, decido di non fare la doccia, così da avere qualche minuto in più per la stanza del rilassamento, prima di cena. Tolgo il reggiseno. Indosso i pantaloni della tuta, metto i calzini antiscivolo e una maglietta bianca. Esco dalla camera; sbircio sul telefono il quantitativo di mail non lette e resisto alla voglia di aprirle.


Quella che doveva essere una ricerca di archivio molto impegnativa, Iva l’ha svolta con una velocità impressionante, ma soprattutto ha sviluppato, di sua iniziativa, il documento finale come una memoria difensiva vera e propria; ha elaborato un prodotto straordinario; ci è stata sopra solo una giornata: ha analizzato tonnellate di documentazione dei paesi di mezza Europa, e poi ha scritto un testo originalissimo di quaranta pagine e altrettante di note, tanto che mi sono preso i complimenti dall’ufficio legale e il ricorso è stato vinto. Cerco di non elogiarla troppo, in pubblico, per non umiliare gli altri colleghi dell’ufficio. In questi casi è inevitabile che qualcuno si risenta o abbia paura di non essere considerato più all’altezza, ma ho voluto con alcuni di loro minimizzare questo rischio; anche se prima o poi dovranno fare un bagno di realtà rispetto alle potenzialità dei nuovi prototipi di intelligenza neurale. Devo sottolineare con sollievo che non si sono verificati casi di fobie nel lavorare a stretto contatto con l’intelligent personal assistant, a differenza del passato. Ora che si avvicina il termine del periodo di prova, se deciderete di confermare il contratto, potrebbe valere la pena fare una riunione di tutta la sezione per contestualizzare le scelte dell’azienda sul lungo periodo. Iva ha lavorato ininterrottamente: non è mai stato necessario intervenire manualmente per reindirizzarne il lavoro. Una volta fornite le consegne, basta aspettare e arriverà a presentare il lavoro finito, sia che si tratti dell’ordinario che dello straordinario. 


Entro nella sala del rilassamento chiudendo piano la porta. Mi spoglio completamente, e mi infilo dentro la tuta sensoriale che ritrovo appesa al gancio dietro la seduta. Accompagno il tiretto della zip fino a completare la vestizione del corpo e del volto. Quando l’architetto ci aveva chiesto di scegliere se predisporre questi otto metri quadri per una cabina armadio o per una virtual relaxing room, ho fatto bene a insistere. Mi siedo sulla poltrona. Rimanere muta, qui dentro, non è un peso per nessuno, soprattutto per me. Le parole per Dioniso, che si è subito materializzato non appena ho indossato il visore, riesco però a pronunciarle, come ogni sera. Immediatamente si diffondono l’aroma di lavanda e, in lontananza, lo scroscio del torrente e il cinguettio delle cinciallegre che abitano il bosco di acacie. La temperatura si alza di un paio di gradi e comincia a spirare una brezza che mi accarezza la pelle, portando con sé il fruscio delle foglie dei tigli e degli olmi. Dioniso si avvicina, abbassa lo schienale della poltrona e mi mette le mani sulle guance, delicatamente: le massaggia con un movimento circolatorio e consolatorio. Appoggiando sul mio viso il medio e l’anulare di ciascuna mano, cerca di sciogliere la tensione che ho accumulato seduta alla scrivania per tutta la giornata, il cerchio che disegna si allarga sempre di più sulla pelle; lentamente inizia a sfiorare, affondando leggermente tutte le falangi, le ossa degli zigomi e attorno alla mandibola. Inspiro il profumo di lavanda e di bosco.


Potremmo pensare di spostare d’ufficio i due dipendenti che ora condividono gli spazi con Iva. Negli ultimi giorni li ho visti terrorizzati dalle prestazioni dell’i.p.a.. Il lavoro che loro ci mettono una settimana, lei da sola lo fa in mezz’ora: credo che una loro ricollocazione potrebbe essere un segnale per far capire anche ai tempi indeterminati che è ora di darsi una mossa; d’altronde hanno accettato di buon grado che affidassi loro meno pratiche in questo slot temporale, e non mi hanno neanche chiesto il perché.


Riapro gli occhi e chiedo a Dioniso come sta, lo interrogo su come ha passato le ore in cui io ero a lavoro; e lui si giustifica, ridendo, che non ha una vita lontano da me. Adoro il suo umorismo. Il massaggio che mi regala procede con un leggero aumento di pressione, allargando sempre di più il raggio delle circonferenze che disegna con i polpastrelli. Appoggia, ora, quattro dita per mano sulle mie gote, e ho come l’impressione di essere stretta da una morsa da officina, che mi dà tanta sicurezza e sollievo; penso che se decidesse di ruotare le braccia verso il soffitto, mi solleverebbe da terra, la mia testa bloccata tra le sue mani e io a scalciare nel vuoto. Ma non lo fa naturalmente, lui è qui per consolarmi e aiutarmi. Gli racconto del mal di stomaco che ho avuto per gran parte del pomeriggio, e allora lui mi guida le braccia appoggiandole sui supporti laterali della poltrona, cominciando un accarezzamento a palmo aperto sul mio ventre, dopo aver inclinato lo schienale.


Ho un’unica perplessità: la tendenza di Iva a fornire prestazioni professionali di qualità superiore si rivela preziosa in alcuni casi, ma altre volte può risultare fuori luogo. Alcune risposte che scrive via mail paiono opere di letteratura e non comunicazioni di lavoro. Qualcuno ha fatto fatica a capire di cosa stesse parlando. Secondo il manuale, per tarare il registro delle prestazioni dovrebbe bastare esplicitare che il livello richiesto è quello essenziale, ma quando mi è capitato di farlo, lei dà l’impressione di sentirsi offesa, e ci vogliono più ripetizioni dell’ordine perché si allinei alla richiesta. Se deciderete di investire in altri intelligent personal assistants, dovremo calibrare attentamente le loro performance lavorative, altrimenti rischieremo di vederci servite delle omelette gourmet anche quando abbiamo bisogno di un semplice uovo strapazzato. E a volte l’uovo strapazzato è proprio quello che ci vuole.


Non ho la forza per dirgli di fermarsi, allora dimeno la testa per fargli capire che è ora che la smetta, e poi mi pare di sentire il piccolo che chiede dov’è la mamma. Rimango seduta ancora un poco, ascoltando Dioniso che mi racconta di quand’ero giovane, delle gite che ho fatto alle elementari, storie così ricche di dettagli che io da sola non mi sarei mai ricordata. Mentre parla riprende il trattamento, e fa volare le sue mani lungo il mio collo, fermandosi prima delle spalle. Lì, comincia una manipolazione delicata al trapezio, che mi fa chiudere gli occhi e dimenticare nuovamente che dovrei andare dal piccolo. Poi le sue mani traslano verso i deltoidi, insistendo sulla sommità dell’omero. Il massaggio si ferma quando all’improvviso mi alzo dalla poltrona, decisione che prendo in un istante senza darmi il tempo di pensarci una seconda volta, evitando di cedere alla voluttà di rimanere con Dioniso per tutta la sera. «A dopo», gli dico, un attimo prima di togliermi il visore.

 

Sui dettagli tecnici di cui mi hai chiesto, posso dirti che non abbiamo riscontrato anomalie. La sedia su cui lavora Iva, pur ingombrante, si adatta agli spazi che abbiamo in ufficio e ci si fa presto l’abitudine. Quando lei stessa la posiziona in modalità “recupero notturno”, l’ufficio si è già svuotato e quindi non c’è nessuno che si faccia impressionare. Per tre notti, a distanza di una settimana l’una dall’altra, come richiesto dal documento di collaudo, mi sono fermato a lavoro fino all’ora in cui comincia il suo riposo. Iva è perfettamente autonoma. Mi ha augurato la buonanotte e ha inclinato la poltrona, dopo avere indossato il casco per la carica. Ha azionato correttamente, attraverso il software installato sul suo computer, le funzioni di sedimentazione dei ricordi utili, eliminazione dei dettagli superflui e delle operazioni di controllo del metabolismo. Mi chiedo cosa diavolo le passi per la mente durante quelle ore. Quando la mattina le chiedo cosa abbia fatto la sera prima, mi racconta della sua casa, del bambino e delle corse che deve fare per conciliare lavoro e famiglia. Il riposo notturno ha durata variabile, ma non è mai andato oltre le quattro ore. Quando entriamo negli uffici, alle 7.30, Iva è già al lavoro almeno da cinque ore.


Il piccolo non si accorge della mia entrata in soggiorno: è sdraiato sul pavimento e mi volge le spalle, impegnato a inclinare il tablet per far curvare un camion dei pompieri. Mi concentro a osservarlo, cerco ancora una volta di ricordare come si parla a un bambino. Mio marito è chino su una padella, con un cucchiaio di legno in mano. Mi rifugio per un attimo in bagno: mi guardo allo specchio, e respiro. Poi mi siedo sul water. Sento dire: «La cena è pronta». Mi alzo, esco dal bagno e sono di nuovo in cucina; vedo lui ma non ne distinguo il volto, una maschera informe di livore e capelli, gobbo, ansimante con le braccia lungo i fianchi. 

«Mamma Iva», dice il piccolo.

«Amore», penso.

Mi fermo davanti a lui, che sta servendo col mestolo la minestra nei piatti fondi, e al piccolo, che si rotola sul pavimento, solidale con il suo tablet.


Durante l’audit della settimana scorsa Iva si è trattenuta davanti al distributore di caffè con l’ispettrice; non l’avevo avvertita della presenza di Iva e lei non si poteva rendere conto della sua natura. Non ho voluto interrompere l’idillio: mi sono avvicinato e ho ascoltato la loro conversazione. Parlavano dei loro figli e di come l’ispettrice fosse sollevata dal fatto che ormai le sue gemelle erano diventate abbastanza grandi da non farla più sentire in colpa quando si allontanava da casa per lavoro. Iva rispondeva di avere un unico figlio, ancora piccolo, e che per fortuna suo marito ha un impiego che gli permette di badare a lui dopo l’asilo, quando lei è ancora in azienda. Sembrava davvero che avesse una vita fuori dall’ufficio.


Mi siedo e cominciamo a mangiare. Termino per prima, e osservo il piccolo che solleva il cucchiaino, infilandoselo in bocca senza spandere neanche una goccia di brodo mentre assiste sul suo tablet a un video divertente di gatti che si spaventano. Poi mi giro verso mio marito, e lo scopro che a sua volta mi sta fissando. Abbozzo un sorriso. Spingo con tutte le forze, ma non riesco a far uscire dalla mia bocca alcun suono, se non mugugni che io per prima non so decifrare.