TANABATA
TANABATA (Qixi)
Un racconto di Alessandro Gorza
Domani notte qui a Sendai sarà Tanabata. I festoni che riempiono il cielo sopra le vie mi parlano della storia che ti avevo raccontato quella notte, accesa dalle luci dall’Opéra Garnier.
Mi atteggiavo a scrittore flaneur bevendo un caffè a Montmartre, quando eri apparsa come l’improvviso porpora del tramonto. Seduta due tavoli più in là, guardavi la strada verso il Bateau-Lavoir con aria assorta; io, abbassati gli occhiali sulla punta del naso e appoggiato il manoscritto, non riuscivo a smettere di fissarti. Un velo di rosso sulle labbra, gli occhi profondi come una notte di fine inverno. I capelli nocciola per la parte di te che rimaneva in ombra, color del miele per quella sotto il sole, due onde leggere attorno al viso sotto il basco bordeaux. Un chiodo nero sulla maglietta di una band da Primavera Sound che avevo visto suonare chissà dove, chissà quando. Non riuscivo a distogliere lo sguardo e te ne eri accorta. Mi avevi guardato per un attimo, poi ti eri voltata appena verso destra e un sorriso si era allargato sulle tue labbra dipinte, che ora disegnavano un cuore perfetto. Lui, camicia bianca e pantaloni scuri, passo sicuro e maniche arrotolate su tatuaggi strafottenti, le scarpe eleganti un po’ consumate sull’esterno, come da una camminata troppo potente, quasi feroce, sotto spalle larghe e solide che ti si facevano incontro. Il tuo viso, un ovale perfetto, era illuminato dal sole che ti pioveva addosso.
«Ma insomma, Fede, ne abbiamo già parlato un sacco di volte. Che senso ha? Se all’editore non piace, forse non è l’editore giusto, no? O, forse, il mio non è il romanzo che vuole pubblicare, no? Ma lo so cosa vuol dire essere pubblicato da lui, ma cosa vuoi che ti dica? Non mi viene, non mi viene e basta, farei prima a buttar giù un romanzo nuovo che a riscrivere tutto questo. Non ne ho più, ci ho lavorato per anni e non ne ho più. Questo romanzo è così e basta. Sì. Sì, lo so. È solo un capitolo, un punto in cui mi sono incastrato. Lo so, lo so. Lo. So. Ma non so come fare. Va bene. Dovrei trovare una scossa che mi faccia andare nella direzione giusta, mi manca un’idea, una maledetta idea appena plausibile e lo faccio contento. Ci provo. Sono stanco, è dalla fine dell’anno scorso che andiamo avanti con l’editing e mi sto innervosendo. Andrò a sbattere la testa contro un muro per vedere se ne viene fuori qualcosa.
La settimana prossima. Non so come, ma il capitolo corretto lo vuole fra una settimana. Sì, sì, sto bene. No, no, macché fanciulle, lo sai, sono vecchio e sto bene così: prima dei cinquanta voglio solo farmi pubblicare da lui e poi portarmi a casa un bel premio grosso, magari un’opzione per un film e mi trasferisco davvero in Normandia a invecchiare bevendo Calvados e scrivendo mémoires fumosi e malinconici. Dai, almeno ti faccio ridere, no? Ti chiamo quando ho novità; stai bene. Anche tu, anche tu, mi raccomando. Ti aggiorno. Sì, sì, sì. Ti abbraccio.»
Un rumore dalla porta. Qualcosa che grattava nella serratura. Un ladro? Pericolo? Pensieri arrivati in ritardo, perché ormai avevo aperto il battente con la tua mano rimasta attaccata al pomello e tu scivolavi nell’ingresso, quasi cadevi sul divanetto fin de siècle; il bracciolo a sostenere scricchiolando il tuo sguardo atterrito: «Ma, dove cavolo sono? Oddio, mi scusi, questa è casa sua? Ma come?»
Niente basco, niente chiodo, una coda a raccogliere i capelli dietro le orecchie piccole, da gatta. Un trench nero e gli occhiali con la montatura grossa scivolati sulla punta di quel naso che avrei riconosciuto ovunque. La luce che attraversava l’ingresso ti tagliava appena sotto la fronte, l’occhio sinistro trasformato in smeraldo, mentre l’altro rimaneva scuro.
«Buongiorno.»
«Oddio, mi scusi, mi scusi… sono mortificata! Abito qui da poco e devo aver sbagliato piano: i portoncini sono tutti uguali, tutti neri. Mi scusi.»
«Ma si figuri, che problema c’è?»
Ti sorridevo mentre strizzavi l’occhio per la luce.
«Ma, vuole accomodarsi? Le offro un caffè, un bicchiere di vino?» e ti spostavo scivolando alle tue spalle, per mettermi fra il tuo braccio che ancora annaspava verso la maniglia e la porta.
«No, ma si figuri, è molto gentile ma stavo tornando a casa.»
«Piano sopra o piano sotto?»
«Prego?»
«Casa sua: piano sopra o piano sotto?»
«Oh, scusi. Sopra. Direi. Questo è il quarto vero? Come nel palazzo in cui vivevo prima. Qui abito al quinto, per questo mi sono confusa, troppi giri di scale sovrappensiero. E non capivo proprio perché la chiave non volesse aprire. Che stupida che sono!»
«Può capitare. Bene, adesso so con chi protestare se sento rumori sopra la testa.»
«Scusi?»
Indicai il soffitto ridendo: «scherzavo, era solo una battuta: visto che lei abita di sopra…»
«Ah; oh che tonta. Certo. No, ma non si preoccupi: sono sempre fuori. Ma adesso, la ringrazio per la gentilezza e la libero.»
«Nessun disturbo», scivolandoti ancora di fianco e sentendo quel profumo così forte, quasi maschile salire dal tuo collo: «anzi, spero ci sia occasione di incontrarci di nuovo. Alessandro.», la mano tesa a stringere la tua così sottile che spariva nella mia, «Scusi se sono sfacciato, ma ha un profumo che… posso chiederle che cos’è?»
«Il profumo? È un intenditore?»
«No, ma è impossibile non notarlo: così forte, così…maschile?»
«Che naso. Sì, è molto particolare. Si chiama Stercus, è di un marchio italiano poco noto, ma importante nella profumeria di ricerca: Orto Parisi.»
«Stercus? Profumeria di ricerca? Allora è lei l’intenditrice.»
«Un po’, lavoro nel campo dei profumi. Una cosa un po’ lunga da spiegare…»
«Magari un giorno avremo modo…»
«Magari. Perché no. È stato molto gentile, buona serata.»
«E?»
«E?»
«Ora so che abita sopra casa mia, che vive qui da poco, so che lavora nel mondo dei profumi, ma non so come si chiama. Di nuovo, piacere: Alessandro.»
«Ha ragione, che scortese. Valeria, piacere mio.»
Un sorriso e già stavi salendo le scale quasi di corsa e io non riuscivo a chiudere la porta e rimanevo a respirare quel profumo nell’aria e avrei voluto trovare il modo di trattenerlo, di respirarlo il più a lungo possibile: legno, pelle, qualcosa di dolce ma allo stesso tempo ruvido. Che meraviglia, come fare a tenerlo ancora lì con me?
«Fede? Ciao. Ho una gran notizia: ho riscritto quel maledetto capitolo. Sì, dall’altro ieri: sono due giorni che non dormo e forse non ho neanche mangiato. Non mi ricordo. Di sicuro non mi sono lavato perché puzzo come un cane. E di sicuro ho finito birra e vino e tutto l’alcol che avevo in casa. Stavo per farmi di sciroppo per la tosse, ahahah… No, no, non sono impazzito: ho avuto lo schiaffo che mi serviva. Ti mando via email tutto; ovvio, è una bozza, niente di definitivo, ma, cacchio, mi piace! Leggi in fretta che voglio rivederlo per mandarlo anche a lui. Ti dico solo una parola: profumo. Sì, profumo. Dovevo trovare qualcosa di sensato che giustificasse come lui riconosce lei, giusto? Dovevo dargli una scusa per fargli dire: “sei tu, ne sono certo perché blablabla”. Giusto? Ecco, ho trovato: un profumo, il profumo che lei aveva addosso quando si erano incontrati alla festa. Ma, non un profumo normale: una cosa strampalata, che nessuno conosce e che quindi poteva avere solo lei; o quasi solo lei; insomma, una cosa così rara da rendere realistico un riconoscimento per via di naso. Sì, sì, secondo me torna. Ascolta: ho fatto ricerche, esiste una roba che si chiama profumeria di nicchia, o artistica. Lo so che non ne sai niente, neanche io fino a due giorni fa. Ma ho scoperto che è questo mercato marginale rispetto a quello delle grandi case cosmetiche, ma mica tanto piccolo: qui a Parigi è pieno, pare, di boutique di profumi poco distribuiti e molto costosi e in Italia ci sono tre o quattro famose profumerie specializzate. E, niente, lei quella sera al club aveva quel profumo, indossava quel profumo. Sì, si dice “indossare”, te l’ho detto che ho fatto ricerche. E ho trovato una profumeria di nicchia, o di ricerca, insomma, di quelle che fanno al caso mio e ci vado a far due domande a chi ci lavora. Sì, sì, indago e poi cesello il testo, ma adesso leggi! E, devo prendere qualcosa per Valeria, devo ringraziarla. Giusto, giusto, Fede, tu non ne sai nulla! Valeria è la mia vicina di casa e mi è piombata addosso per sbaglio l’altro ieri – o era tre giorni fa? – ed è tutto merito suo. Un secondo dopo che ho riattaccato con te che mi facevi il cazziatone, questa ragazza mi entra in casa con quello strano profumo e boom: l’illuminazione! Ecco, la scena funziona, Fede: era quello che mancava. Sì, sì, mi calmo, sono eccitatissimo: non ho scritto delle pagine così da non so quando, forse mai. Sono gasatissimo! Ti sto mandando l’email. Adesso vado a farmi una doccia, esco e vado in questo negozio. Domande, appunti e compro un profumo per Valeria. Per ringraziarla. E perché è bellissima, Fede, bella da sentirti come se ti prendessero a sberle quando la guardi!»
Zhinu, figlia dell’Imperatore e della Regina del Cielo, era una tessitrice abilissima: sedeva ogni giorno al suo telaio e ordiva arazzi così belli e colorati che le nuvole si fermavano per ammirare quello splendore di colori nel cielo. Erano le albe e i tramonti che riempivano l’azzurro.
Una sera d’estate, stanca per il molto lavorare, udì una musica dolcissima e, incuriosita, si lasciò portare dal fiume che scorreva vicino al palazzo imperiale verso quelle note che galleggiavano nell’aria. Poco più a valle, sull’altra sponda del ruscello, il giovane Niulang, un umile guardiano di buoi, si riposava dopo la giornata di lavoro suonando il suo flauto. I due si conobbero e cominciarono a vedersi ogni giorno: Zhinu ogni mattina attraversava il fiume per incontrare Niulang e cantare con lui, accompagnata dalla sua musica. Si innamorarono e la giovane, per il suo matrimonio, confezionò un meraviglioso abito fatto di gocce di rugiada e della luce delle stelle. La notte delle loro nozze, Zhinu era così luminosa che anche gli uomini della Terra potevano vederla brillare e si chiedevano perché la Stella Tessitrice fosse così splendente.
I due, così felici e pieni d’amore, dimenticarono però i loro doveri: Zhinu smise di ordire tramonti e albe colorate e il cielo per questo si offuscò e Niulang lasciò che i suoi buoi girassero liberi, quasi allo stato brado.
La Regina del Cielo, madre di Zhinu, si spaventò moltissimo quando una delle bestie entrò nella sua stanza e fece cadere i suoi fermagli per i capelli; allora, infuriata, lei prese una spilla e tagliò una riga attraverso il cielo, lungo il fiumiciattolo ove si erano conosciuti Zhinu e Niulang e creò, con questo gesto, il grande Fiume d’Argento, la Via Lattea. Zhinu, in quel momento, era sulla sponda sinistra del ruscello che attraversava sicura ogni giorno per incontrare Niulang, che invece si trovava sulla sponda destra. I due innamorati erano così separati per l’eternità.
Zhinu, piangendo tutte le sue lacrime, tornò a tessere su una riva e Niulang, disperato e solo, ricominciò a portare al pascolo i suoi buoi sull’altra sponda di quel torrente che ora era un enorme fiume di stelle; ma il dolore gli riempiva il cuore e, per questo, non era più capace di suonare il flauto.
L’Imperatore del Cielo, impietosito per la disperazione della figlia, decise che almeno una volta all’anno i due giovani sposi potessero incontrarsi: lei, allora, chiamò delle gazze dalla Terra degli uomini e queste formarono un ponte sopra al fiume e la giovane sposa, saltando sulle loro schiene, poté così raggiungere l’amato marito.
Durante tutto l’anno, Zhinu tesse i colori del cielo riempiendolo di albe e tramonti e luce sfumata e Niulang pascola i suoi buoi, sognando il giorno in cui potranno ancora toccarsi e baciarsi e stringersi l’uno all’altra.
Il giorno seguente l’incontro dei due innamorati, dopo aver visto per tutta la notte la stella tessitrice brillare, gli uomini della terra possono notare le gazze dalle penne arruffate, segno che la principessa Zhinu è salita sulle loro schiene per raggiungere il marito. In quel giorno, il settimo del settimo mese lunare del calendario cinese, si festeggia QiXi, il doppio sette, e si stendono in tutte le strade drappi rossi, il colore delle nozze, per ricordare l’amore contrastato ma eterno dei due amanti divisi. In quel giorno propizio all’amore, ci si sposa, ci si promette eterna fedeltà e felicità; si ricorda la storia della tessitrice e del bovaro col cuore colmo di tristezza e le lacrime di gioia che i due amanti piangono quell’unico giorno all’anno in cui gli dei concedono loro di stare assieme.
Parigi era bellissima, la primavera che già voleva diventare estate faceva brillare tutte le finestre dei palazzi pensati a metà ‘800 da Haussmann e Napoleone Terzo. Il negozio in rue du Mont Thabor era a pochi minuti di passeggio: avevo un sacco di idee in tasca per rendere ancora più efficaci le pagine appena scritte. Sentivo ancora il profumo comprato per Valeria, Rose & Cuir, ultima creazione “di quel geniaccio di Jean-Claude Ellena, una rosa con alle spalle una tempesta. Vetiver e cedro per quella nota terrosa e cuoiata che dovrebbe combattere il fiore e invece lo sposa, creando un’alchimia perfetta. Una creazione che rimarrà nel tempo”, così mi avevan detto, e io avrei rubato quelle parole per il mio libro. Avevo voglia di camminare: attraversavo i Jardin des Tuileries col Louvre in faccia dribblando i turisti, la Senna brillava del riverbero di una luce calda e confortevole. Quasi un’ora per arrivare al Marais e nella mia Place des Vosges e godermi il tramonto. Seduto su una panchina, rileggevo le note prese: lei indossa quel profumo perché lavora in una boutique sulla Rive Gauche, fragranze di nicchia, o di ricerca, come le chiamano. Lui lo riconosce perché da sommelier ha dimestichezza coi profumi, ma non ne ha mai sentito uno simile. Lo ricorda perfettamente.
Le giornate si stavano velocemente allungando: ancora non tramontava il sole e si scontrava con l’ardesia dei tetti del palazzo che fu costruito per il Re e la Regina, si rifletteva nei vetri degli abbaini. La piazza più bella di Francia.
Chissà se Valeria era casa, chissà se era sola e chissà se l’avrei convinta a una cena improvvisata.
Salivo le scale facendo i gradini a due a due. Saltato il pianerottolo di casa, bussavo al portoncino identico al mio, qualche metro più in alto: «ciao Valeria, sono Alessandro, il tuo vicino di sotto, ti ricordi? Quello dell’altro giorno…»
«Ciao, è successo qualcosa?». Che meraviglia il tuo sguardo perplesso, il tuo spostare i capelli dietro l’orecchio e sorridere dei miei occhi folli, della bottiglia di vino mostrata come un trofeo: «dobbiamo festeggiare! Anzi, ti devo ringraziare!», ed ecco il pacchetto rosso di Editions de Parfums. L’avevi riconosciuto subito, non avevi potuto trattenere un nuovo sorriso ancora più luminoso: «Ringraziarmi? Ma di cosa?»
La versione giapponese di QiXi si chiama Tanabata – settima notte – o Festa delle stelle o Festa delle stelle innamorate e cade fra luglio e agosto, a seconda del calendario: anche qui il settimo giorno del settimo mese lunare. Le strade di Sendai, la città che più di tutte celebra questa ricorrenza in Giappone, sono piene di lanterne illuminate e festoni colorati. Qui, Zhinu si chiama Orime e Niulang è Hikoboshi. Sono, rispettivamente, la stella Vega e la stella Altair e non fu la madre, ma il padre di lei, il Re del Cielo, a creare il Fiume Argentato per separare i due innamorati distratti dai loro doveri. La strada è piena di zen-washi, le lampade di carta decorate e di tanzaku, le strisce multicolori che simboleggiano i fili che tesseva Orime. Cammino in un fiume di persone vestite con lo yukata, il tradizionale abito informale di cotone leggero e colorato; moltissime coppie giovani chiedono alla notte magica di rendere eterno il loro amore e io mi sento così immensamente stanco, così vecchio. La ragazza del bar da cui sono appena uscito mi ha donato una piccola canna di bambù: è il simbolo principale del Tanabata, orna le porte delle case e i locali affollati ne sono pieni. Mi ha sorriso di un sorriso dolce e un po’ triste. Forse pensa al suo Hikoboshi o forse crede che, grazie al giunco cavo che mi ha regalato, troverò la mia Orime.
«Dobbiamo andare in Giappone assieme.»
«Cosa?»
«In Giappone. Dobbiamo andare in Giappone assieme alla festa di Tanabata.»
«Tanabata?»
«Non conosci la storia di Orime e Hikoboshi? Che poi sarebbero Zhinu e Niulang? I due amanti separati dalla Via Lattea?»
«Non so di cosa tu stia parlando. Ma so che non dovresti essere qui. Non più, almeno. Dai, non fare quella faccia.»
Avevo provato a sorridere per tutto il tempo. Dovevo esserti sembrato pazzo.
«Ascolta, ascolta: hai ragione. Ma non consideri Tanabata e quel viaggio in Giappone!»
«Quale viaggio?»
«Lascia tutto e vieni con me: vivremo di sushi anche se io sono vegetariano, io scriverò libri in giapponese baciato dalla stella del genio e tu creerai profumi. O andrò a pascolare buoi e tu tesserai tramonti bellissimi nel cielo. Vieni con me. Ovunque, ma con me.»
Sorridevo anche sulla porta, mentre mi spingevi fuori. Ho baciato il tuo «ciao, scusa, ma è così. Devi andartene.»
Sul pianerottolo, ho chiesto ancora di venire in Giappone con me al tuo portoncino nero, ho avuto paura di avere un infarto, ma ho fatto il duro e tenuto il sorriso, magari tu stavi guardando dallo spioncino. Una fitta al petto che pensavo davvero di restarci secco, che fine poco gloriosa sarebbe stata: scrittore quasi famoso ha un malore rincasando, sbaglia piano stramazzando davanti alla porta della bellissima vicina che si sveglia per il tonfo e chiama i soccorsi, che non possono fare altro che constatare il decesso. Un trafiletto su qualche giornale, forse anche su Le Figaro, in fondo l’ultimo romanzo è andato bene anche qui e un po’ di gente si sarebbe ricordata di me, almeno fra gli addetti ai lavori. Sono rimasto immobile con la giacca in mano e il tuo profumo addosso. Ho scosso la testa come un cane appena uscito dall’acqua e, poi, mezzo passo indietro e mezzo avanti per restare il più possibile immerso in quella nuvola di note colorate che ballavano ancora attorno al mio naso. Che errore. Una fantasia. Il regalo, il vino, ti avevo travolta ma c’era un lui. Che errore. Non era il caso di rivederci, mi avevi detto. Mi tremavano le gambe mentre scendevo le scale illuminate dai finestroni sull’Opéra Garnier accesa. Dovevo riscrivere il capitolo. Solo questo contava. Il libro. Nient’altro. Seduto sul water, ho guardato la posta sul cellulare: il primo messaggio era di Fede. Oggetto: “bellissimo”. Testo: “è una bomba. TI ADORO”. Avrei dovuto essere felice. Avrei dovuto sorridere: ero a un passo da quello che avevo sempre sognato. I miei occhi arrossati nello specchio: la faccia stravolta di chi non ha dormito e non ha capito cos’è successo. Solo una notte da archiviare? Sentivo ancora quel profumo, quel profumo che non mi si levava di dosso, che non volevo perdere.
Zhinu-Orime e Niulang-Hikoboshi, le due stelle amanti, furono separate da una dea capricciosa o da un imperatore arrabbiato, comunque da un destino più grande di entrambi. Eppure, venne loro concesso di incontrarsi una volta l’anno, non una volta soltanto nella vita.
Cammino a caso per le strade della città più grande della regione di Tohoku. Un anno fa, di questi giorni, qui si festeggiava Tanabata, mentre io passavo le notti a ubriacarmi a casa di Federico, amico, agente e, per l’occasione, boa per non affogare. Tu, avrei scoperto settimane dopo tornando a casa in Rue Joubert, avevi già traslocato: «se n’è andata, è stata qui pochi mesi solamente, poi se n’è andata via col fidanzato, che stranezza…questi giovani…», aveva detto scuotendo la testa la tua dirimpettaia. Credo mi avesse visto quasi svenire all’alba sul tuo pianerottolo, dopo quella notte. Era meglio così: ne avevo già abbastanza di casino in testa. Me ne ero andato in Normandia ad aspettare che il libro fosse pronto, prima che cominciasse il caos della promozione, delle interviste e presentazioni.
Oggi, di nuovo si festeggiano le due stelle innamorate ed eccomi qua, a camminare al tramonto per strade sconosciute e piene di musica e luci colorate e sorrisi, alticcio di birra giapponese e stanco come mai sono stato. È passato quasi un anno e mezzo da quando ero steso sul pavimento di legno del tuo appartamento. Da quando, follia, come dice Fede, destino, come penso io, mi sono innamorato di te.
Eccomi, finalmente, quello che ho sempre sognato di essere: uno scrittore. Uno scrittore vero, di quelli di cui si parla, di cui si scrive.
«Solo tu,», mi ha detto guardandomi negli occhi Federico, una mattina di poche settimane fa, quando hanno consegnato il pacco con le prime copie del romanzo, «solo tu potevi incasinarti così tanto da avere questa faccia la mattina più bella della tua vita.»
«Mi serve una vacanza,» avevo risposto versandomi un bicchiere di bianco.
Non posso essermi innamorato di te in una notte, eppure sono passati quindici mesi e ogni volta, prima di addormentarmi, sento il tuo profumo nel naso. Forse qui, dove sono venuto da solo; forse qui, a diecimila chilometri da tutto, riuscirò, per una notte all’anno, a chiudere gli occhi senza sentirlo più.