La linea di basso
un racconto di Sara Spanò
Una voce poco fa
Qui nel cor
Mi risuonò
Note lunghe, sillabe piene si tendono come archi nella stanza, la attraversano; la luce del giorno la inonda, accende le trasparenze delle tendine verdi e la tappezzeria a gigli dorati, fa brillare le sinuosità del lampadario d’ottone appena lucidato. Le trame del copritavola di merletto bianco – quello costosissimo della bisnonna – risaltano ancora di più sul mogano del tavolo massiccio da sei.
Io sono docile
Son rispettosa
Sono ubbidiente
Dolce e amorosa
La cavatina di Rosina, dal Barbiere di Siviglia, accelera il ritmo, diventa sempre più scintillante, fa brillare tutto, mette alla prova la voce, che deve adattarsi ai virtuosismi previsti da questo passaggio. Non si può sbagliare. Non si deve sbagliare. Non si deve sbagliare mai, pensa Cecilia, mentre accompagna la registrazione con il proprio canto. Lei non sbaglierebbe, con lei sarebbe tutto perfetto, a differenza del suo idolo, Joyce Di Donato: nella sua voce si avverte qualcosa di strano, un rumore di fondo lieve e insistente che Cecilia non riesce a identificare, ma che è sicura di aver sentito. Lei riesce a percepire tutto, è da anni che studia canto, che studia la voce: quella degli altri, la propria.
E cento trappole
Prima di cedere
Farò giocar
Farò giocar
L’aria finisce, nell’intreccio luccicante delle note di Rossini. La registrazione si ferma. Cecilia pensa, sospirando scoraggiata, che non canterà quest’aria nemmeno la prossima stagione. Troppo giocoso questo ruolo per te, hai un altro temperamento, le dicono. Macché, lei sarebbe perfetta, ma non possono dirle la verità, che qualcun’altra, qualche gran raccomandata, avrà la parte. Mentono tutti. Anche il sole mente, non dice la verità, non dice che non è luglio ma è novembre, e che si avvicina il giorno in cui Cecilia dovrà cantare nel Requiem di Mozart – un componimento che lei ama, il componimento che l’ha fatta notare, quello a cui deve tutto, ma da cui prenderebbe volentieri una pausa. Ma non può: l’esibizione di quest’anno verrà anche registrata.
Comunque, buon Gesù, certo, sì, la sua interpretazione della cavatina di Rosina sarebbe perfetta. Altro che rumori. La sua voce da mezzosoprano, profonda e scura nella solennità del Requiem, non aspetta altro se non brillare in parti virtuose e di coloratura.
Una voce poco fa
Qui nel cor
Mi risuonò
Cecilia riprende a cantare, da sola, in silenzio. Non vuole che altre voci la disturbino.
Una nuvola affievolisce per un momento i colori della stanza, spegne il luccichio dell’ottone.
C’è qualcosa, di nuovo. Ma non nella registrazione.
Cecilia si volta, va a controllare. Le finestre sono chiuse. E poi non è luglio, è novembre.
C’è qualcosa nella sua voce ora.
Non è come l’altra volta, quando quel tic nervoso che la costringeva a schiarirsi la voce di continuo la stava rendendo del tutto afona. È altro.
È un fruscio lieve, lontano, come lo sfregamento della puntina del suo vecchio giradischi su uno dei suoi vinili, ma più insistente. Qualcosa di difficile da identificare, ma impossibile da ignorare.
Sarà lo stress. È di sicuro lo stress. I concerti, per quanto su pezzi conosciuti, la agitano sempre. Ed è assurdo che la agitino quando lei li conosce talmente bene, come nel caso del Requiem.
Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit
Nil inultum remanebit
Cecilia ripassa a mente la sua parte da solista nel Tuba mirum – la sua parte preferita, per musica e per contenuti: alla fine dei tempi, tutto verrà rivelato e punito, a cominciare dalle ingiustizie. È costretta a interrompersi per un altro motivo adesso: di nuovo quei gorgheggi e vocalizzi sgraziati, privi di ogni intonazione, quelle scale naturali completamente sconnesse. Una voce femminile si esercita, a quanto pare senza speranza, da un appartamento vicino.
Si accorge che la luce nella stanza è diversa: è diventata livida, appiattisce i colori, li ingrigisce.
Cecilia trae un respiro profondo, si lega i capelli alla buona, indossa il cappottino nero in feltro di misto lana – troppo lungo per lei, le dicono tutti, ma d’altronde costava poco – ed esce in fretta di casa. Tra quindici minuti deve essere da Julia, la bambina a cui impartisce lezioni di canto. Per fortuna casa sua si trova proprio al limitare del centro storico, dove si trova anche il Duomo intitolato a San Pietro, e dove Cecilia canterà di nuovo il Requiem per la prossima Totensonntag – il Giorno dei Morti secondo la tradizione protestante – domenica 26 novembre.
Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit
Nil inultum remanebit
Il tempo è cambiato: ora è nuvoloso e freddo come si addice alla stagione. Beh, persino troppo sole, oggi, pensa Cecilia, stringendosi nel cappotto, a passo svelto sui sanpietrini lucidi di Marktplatz – è piovuto, quando? –, mentre passa accanto al piccolo Duomo gotico e alle sue due torri. A presto, di nuovo, sospira Cecilia; getta uno sguardo ai leoni di pietra che fanno da guardia alla porta principale, cerca per un attimo di evocare, senza riuscirci, il rumore che ha sentito nella propria voce e tira dritto, fino al pesante portone di legno scuro dove abita la famiglia di Julia.
Mentre sale le scale di marmo tenendosi alla ringhiera di ferro battuto – cinque piani senza ascensore –, Cecilia comincia ad avvertire, oltre a un lieve affanno, un’onda di malumore che le sale dallo stomaco. Si ricorda che è venerdì, e che, come ogni venerdì, la madre di Julia è solita preparare zuppa di cavolo, indipendentemente dalla stagione – a parte la variazione al cavolo nero a gennaio, ma si tratta di una parentesi breve.
Quel fruscio, leggero, ritmato. Che cos’era? Era davvero il suono di puntina che scivola male su un disco?
Cecilia si ritrova seduta al pianoforte di Julia – uno Stenway&Sons nero che le ha sempre invidiato –, a dare gli accordi per gli esercizi sulle scale. Ma ha salutato, quando è entrata in casa? Cecilia non ricorda quasi nulla, a parte la consueta zaffata di cavolo – quell’odore denso che lo spicchietto delle finestre aperte a vasistas non riuscirà mai a disperdere – e il cardigan violetto con la petunia rosa ricamata di Julia – ne aveva uno simile anche lei, da piccola.
È così distratta. Ripensa soltanto a quel suono, quel suono nella sua voce. Non riesce a riportarlo alla memoria. Dovrebbe cantare per riuscirci.
Una voce poco fa
Qui nel
Quanto è stonato, quel Mi bemolle, e il resto della scala è impreciso: c’è da dire che Julia non è particolarmente portata per il canto. Per carità, niente a che vedere con l’aspirante cantante che si esercita nel circondario del suo appartamento. Si tratta di altro. Julia è diligente, studia molto, esegue i compiti, ma si percepisce – da quegli sguardi bassi dopo ogni correzione, da quegli sguardi ansiosi che chiedono approvazione, da come la bambina si tira su bene con la schiena quando sente lo sciabattare della madre in avvicinamento – quanto non voglia deludere la famiglia, che ha investito moltissimo in lei, tra pianoforte, lezioni private, conservatorio.
Almeno la famiglia di Julia ci ha creduto, ci crede; quella di Cecilia è stata sempre di tutt’altro avviso, e lo è ancora. La carriera artistica è una scelta insensata; si può essere dilettanti avendo già una solida base economica, ma vivere d’arte no, non è possibile. Non importa quanto si possa essere oculati.
Smettila con questa fissazione del canto, Cecilia.
Che vita potrai mai costruirti?
Cecilia ha cominciato a far ascoltare a Julia l’esecuzione corretta di uno degli esercizi, una scala minore naturale di Do.
Arrivata al Fa, si ferma.
Ecco ancora quel rumore. Nella sua, di voce. Sempre più insistente. E sempre più inequivocabile. Niente che somigli davvero alla meccanica di un giradischi, però. È altro. Qualcosa di vivo. Un ronzio, forse?
Cecilia chiude di scatto il coperchio della tastiera e lo fissa, inebetita. Sente addosso lo sguardo sconcertato di Julia che la osserva da dietro gli occhiali spessi, sa che dovrebbe dire o fare qualcosa, anche soltanto per prendere tempo mentre si tranquillizza, ma non riesce a fare un solo gesto.
Un pensiero le taglia il fiato: Julia avrà sentito? Si sarà resa conto di qualcosa?
Mamma, Cecilia si è fermata all’improvviso perché ha la voce che ronza.
Anche io ho la voce che ronza, mamma?
Ma una persona che ha la voce che ronza come fa a cantare?
La sente già, sente già le parole che dirà a sua madre, la sua angoscia di perdere la voce su cui tutta la sua famiglia sta tanto investendo.
Mamma, sono brava a cantare, io?
Sei brava, Cecilia, ma ora finisci di studiare le tabelline, che cantare non dà da mangiare.
Cecilia scuote la testa, chiude gli occhi e ripete la scala.
Stavolta deve interrompersi prima, al Mi bemolle.
Il ronzio è sempre là. Nella sua voce.
La voce la voce la voce. La sua voce. La sto perdendo? Ma non può confidarsi con nessuno. C’è qualcosa che mi altera la voce, no, che mi mina la voce? C’è qualcosa che me la sta strappando? C’è qualcosa di vivo?
Cecilia si alza dallo sgabello ed esce di fretta dal salone; in cucina, dove la cappa soffocante di odore di cavolo ha creato condensa che gocciola dal vetro della finestra, farfuglia nel suo tedesco zoppicante una scusa per la madre di Julia, ho un’urgenza, devo scappare, mi scusi, si congeda e scende le scale senza tenersi dalla ringhiera, lei che non scende mai senza tenersi.
In strada, Cecilia prova a respirare a fondo; l’aria fredda la scuote, il pensiero che mentre parla la sua voce non ronzi la consola per un attimo, ma non la distoglie da un pensiero insistente, un basso ostinato nella sua testa. Julia avrà sentito? Avrà raccontato tutto a sua madre?
Mentre si dirige in fretta da Marktplatz verso Sögestraße, Cecilia ricorda con una morsa allo stomaco che il venerdì sarebbe stato giorno di paga, ma che con quella sua piazzata forse farebbe meglio a non farsi vedere per un po’ dalla famiglia di Julia; forse farebbe meglio a fare un giro di telefonate preventivo e annullare le lezioni fino alla fine del mese, perché sarebbe piuttosto sconveniente presentarsi a casa di altri allievi e fare la stessa magra figura. Soltanto fino al Requiem, pensa Cecilia, è lo stress per il Requiem, null’altro, dopo passerà. Passerà. Sì.
Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit
Nil inultum remanebit
Cecilia non fa mai attenzione a ciò che la circonda, quando passa per Sögestraße: è la strada del commercio, dei negozi, delle luminarie, delle canzoni natalizie, delle vetrine che rigurgitano festoni rossi argentati dorati, nastri, confezioni regalo decorative impacchettate di rosso argento oro, del brulichio rumoroso della gente che si affaccenda a comprare. Non ha tempo per queste frivolezze, ha cose più importanti a cui pensare; se necessario, preferisce comprare dischi e spartiti, quando proprio non può prenderli in prestito in biblioteca o da qualche collega.
In una delle vetrine addobbate di Hermann Stiesing KG – uno dei negozi più costosi della città che Cecilia ha sempre ignorato –, un manichino indossa un cappottino nero sotto il ginocchio, di foggia leggermente sciancrata. Si ferma a guardarlo: le starebbe proprio bene, e inoltre ormai il suo vecchio cappotto, oltre a essere troppo lungo, è impregnato di cavolo, dovrà buttarlo. E poi, è il 21 novembre; il giorno dopo sarà Santa Cecilia, è giusto che si faccia un regalo ogni tanto. Entra, chiede di provare il cappotto in vetrina, lo compra. Quando esce dal negozio, con la borsa di Stiesing in mano, si sente più leggera; del resto, quell’acquisto è stato l’unica cosa bella della giornata. Lì accanto, Douglas ha le porte aperte, adornate di pacchetti rossi argentati e dorati, e sprigiona una nuvola di musica e profumi che la stordisce per un istante; sarebbe meglio avere un rossetto nuovo, magari un fondotinta decente, magari anche una palette occhi, anche per non sfigurare, durante le prove del Requiem, accanto a Magdalena, il soprano che la guarda sempre con sufficienza dall’alto del suo trucco e della sua pettinatura sempre impeccabili – converrà forse cercarsi anche un parrucchiere? Da quando abita in Germania, Cecilia non è mai andata dal parrucchiere, dovrebbe coprire quei capelli bianchi che ha notato. Un sacchetto di Chanel si somma alla borsa di Stiesing. Meglio che torni a casa, sorride Cecilia gettando uno sguardo sognante all’albero di Natale addobbato d’oro in fondo alla strada, per oggi ho già fatto abbastanza danni. Almeno per un po’, però, la sua preoccupazione per la voce è arretrata sullo sfondo, appena percettibile.
Quidquid latet apparebit
Rientrata a casa, Cecilia lascia sul divano verde salvia i sacchetti, rimette a posto il disco con la registrazione de Il Barbiere di Siviglia – preferisce non vederla per un po’, deve concentrarsi sul Requiem, ora –, si siede e comincia a cercare i numeri di telefono dei propri piccoli allievi per disdire le lezioni in programma fino alla fine del mese. Le telefonate la agitano particolarmente, soprattutto per via del suo tedesco, ma sente di doverle fare. Le reazioni sono a volte indifferenti, a volte dispiaciute, a volte infastidite, ma terminato il giro Cecilia si sente sollevata e comincia a prepararsi la cena; sicuramente anche lo stress delle lezioni, del dover sopportare la mediocrità degli allievi e la stolidità delle famiglie, che si aspettano che i figli diventino stelle di prima grandezza con qualche lezione privata, ha influito sulla voce di Cecilia, su quel ronzio. Passerà. Sì.
Cecilia si è addormentata subito dopo essersi messa a letto, sotto i ricami preziosi delle lenzuola bianche, ereditate dalla bisnonna.
Vede una distesa di erba verde brillante, sovrastata da un cielo completamente sereno, azzurro acceso; il sole è a picco – sarà luglio? – le ombre dei pochi eucalipti sono corte, deve essere mezzogiorno; il silenzio che regna su tutto viene rotto da due voci.
Ma ti rendi conto? Il Conservatorio!
Ah, è proprio tua figlia. Del resto ce l’avete nel sangue, voi.
Qualche nuvola passeggera comincia a solcare il cielo, poi le nuvole diventano sempre più frequenti, sempre più dense, fino a trasformare il verde e l’azzurro in grigio. Suoni stridenti, assordanti, strappano brandelli dalla volta del cielo e dal prato, creano squarci di oscurità.
Nil inultum remanebit
La frase dal Requiem sfuma nella mente di Cecilia; ecco i soliti gorgheggi e vocalizzi inascoltabili dall’appartamento vicino, sono cominciati prima del solito. Cecilia si alza dal letto, indossa le pantofole blu a fiori rosa – tutte sdrucite, sono da cambiare – cerca di mettere da parte il turbamento provocato dal sogno; dopo colazione dovrebbe spolverare la casa, ma preferisce prendersi un po’ di tempo per truccarsi. E poi chissà, magari il parrucchiere a Hillmannplatz è già aperto.
La giornata è grigia, piovosa, fredda – ora sì che è novembre: i colori in sala sono una scala di grigio, che confonde il verde delle tendine, la tappezzeria a gigli dorati ora lividi, spenti, l’opacità del lampadario d’ottone. Anche le trame del copritavola di merletto bianco – la bisnonna sì che aveva buongusto – hanno assunto una tonalità di grigio chiaro, sul mogano del tavolo massiccio da sei. Per fortuna il cielo è coperto, pensa Cecilia, la polvere non si vede, per ora.
Quidquid latet apparebit
Cecilia cammina in fretta – oggi, in via del tutto eccezionale, ha preso l’ombrello, non vuole rovinarsi la messa in piega appena fatta; sta per arrivare all’entrata di Sögestraße, intravede già l’albero di Natale addobbato d’oro, che spicca contro il grigiore del cielo e il colore antracite della pietra scura di cui è lastricata la strada.
Oggi è giornata di prove, al Duomo, con l’orchestra e lo Knabenchor, che si esibiranno insieme ai quattro solisti nell’esecuzione del Requiem. Ormai manca così poco; questi ultimi giorni di prove sono determinanti.
La voce, il ronzio, pensa Cecilia, all’improvviso, e comincia ad accelerare il ritmo del respiro mentre cammina immersa nel caleidoscopio di luci musica colori, nell’ottundimento indotto dagli acquisti e dal giorno di Santa Cecilia. E se succedesse ancora? Le luci, il rosso, l’argento, l’oro si affievoliscono, si spengono, restituiscono la strada al buio. E se gli altri se ne accorgessero? Il brusio della gente in strada tace di colpo, le canzoni natalizie sprigionate dai negozi si smorzano in suoni stonati. E se lei perdesse l’ingaggio dopo aver annullato tutte le lezioni? Le palle dorate dell’albero di Natale trascolorano nel grigio, diventano opache, si sbriciolano. Tutte queste spese così, senza pensare. Non si metterà nei guai? Un tappeto di aghi di abete giace ai piedi di un albero spoglio. Ma deve pensarci proprio adesso, proprio oggi? È anche il giorno del suo onomastico. La statua della santa decapitata – il taglio della scure così netto, la testa ricomposta in posizione innaturale, voltata verso il muro – le si materializza davanti.
Nil inultum remanebit
No, pensa Cecilia, scuotendo la testa, mentre chiude e scuote l’ombrello davanti al portale di legno istoriato del Duomo.
Non succederà. Non durante il Requiem. Non nel giorno di Santa Cecilia.
La chiesa, dall’interno in pietra scura, è appena rischiarata da lanterne di ottone sulle navate laterali; le vetrate nelle cappelle laterali, coloratissime, non irradiano trame di luce sulle colonne e sulle pareti, è un peccato che il cielo coperto non lo permetta; tre lampadari a più bracci pendono lussureggianti lungo la navata centrale; l’ultimo lampadario si trova sull’altare maggiore, davanti al quale si disporranno coro, solisti, direttore e orchestra per il concerto. La grande vetrata nell’abside, che ritrae l’episodio neotestamentario della Pentecoste, in cui predominano il blu e il rosso, culmina nel giallo che segna il trionfo e la discesa dello Spirito Santo, una colomba bianca incastonata al culmine della vetrata ogivale.
Cecilia rivolge un cenno generale di saluto a tutti, senza ricevere calorose risposte, come al solito; molti colgono l’occasione per accordare gli strumenti o rileggere la propria parte; il contrabbassista è impegnato con l’organista ad accordare lo strumento che dà la linea di basso, appena percettibile, ma che sorregge tutta la struttura del componimento.
Mentre appoggia l’ombrello a una delle sedie della prima fila e vi sistema la borsa e il cappotto, Cecilia si accorge che qualcuno la sta fissando. Si volta. È Magdalena, che indossa, anche se si tratta di prove, un abito nero con le maniche di pizzo a motivi floreali; deve aver notato i cambiamenti nell’aspetto di Cecilia, e non lo nasconde.
Si salutano appena, a bassa voce, e prendono posto l’una accanto all’altra.
È l’ultima prova prima della rappresentazione del 26 novembre. I bambini e i ragazzi del coro sono tesi, ripassano le proprie parti; chissà che emozione le loro famiglie.
Che vita potrà mai fare, con il canto?
Vedrai, finirà come quella disgraziata di tua nonna, fallita e senza soldi.
Dopo undici minuti e dieci dalle campane che precedono l’inizio dell’Introitus, Cecilia già sa che tocca a lei: è la sua parte da solista nel Tuba mirum, introdotto dalla tromba che richiama quella che suonerà alla fine dei tempi nell’Apocalisse, quando tutto sarà giudicato e niente rimarrà nascosto o impunito.
Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit
Nil inultum remanebit
Cecilia è trascinata dalle note e arriva fino alla fine della sua parte, ma ormai sa cosa c’è nella sua voce, cos’è quel qualcosa di vivo che sente vibrare in fondo alla gola.
Non è un ronzio.
È chiaro. È un frinire, ritmico, regolare.
Qualcuno se ne sarà accorto? Nessuno sembra aver notato nulla.
Cecilia non sa cosa fare. Non può perdere l’ingaggio. Non può.
In ritardo, attacca al quindicesimo minuto sulla sezione a due voci con Magdalena che la guarda di traverso. Se ne sarà accorta?
Angosciata e pervasa da un profondo senso di nausea, Cecilia arriva fino alla fine – la rappresentazione è breve, si è deciso di eseguire fino al Lacrimosa, nel solco della tradizione ormai superata per cui il Requiem sarebbe stato interamente composto da Mozart fino a quella sequenza. Fa’ che non se ne siano accorti, prega Cecilia, rivolgendosi al crocefisso sull’altare.
Alla fine delle prove, tutto appare normale.
Il direttore si volta e commenta il risultato delle prove.
Cecilia già sa che è la fine del suo ingaggio; il direttore è sempre molto severo con lei, non le lascerà passare una cosa del genere.
Tutto molto buono, dice bonario il direttore, solo direi accordiamo il contrabbasso ancora prima del Dies irae, l’ho sentito un po’ fuori tono.
Poi si rivolge direttamente a Cecilia, che trattiene il fiato.
Ottimo il tempo nel Tuba mirum nella tua parte, Cecilia, ma nella sezione con Magdalena sei entrata in ritardo. Fa’ attenzione.
Magdalena si fa volutamente scappare un risolino malevolo.
E poi, è chiaro che hai qualcosa in gola, si aspetta Cecilia, ma quelle parole non arrivano.
Il problema è il ritardo, non il frinire. È il ritardo.
Non se ne sono accorti?
Oppure fingono?
La commiserano. La commiserano perché è da sola, perché è l’unica non tedesca in tutto il gruppo, perché è un elemento estraneo da espellere. E poi, sono tutti invidiosi. Vogliono ridicolizzarla. Vogliono ridicolizzare la straniera.
Ma la verità verrà fuori, prima o poi.
Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit
Nil inultum remanebit
Cecilia prende le sue cose; esce, senza salutare nessuno.
Attraversata la piazza del Duomo, in preda alla nausea, a passo svelto sui sanpietrini lucidi di pioggia, ripassa per Sögestraße e si ferma di nuovo di fronte alla vetrina di Stiesing: c’è un abito di velluto nero con un motivo luccicante sulla scollatura più bello di quello di Magdalena. Entra, se lo prova, lo compra. La nausea si attenua, cedendo il passo a uno stato di euforia, scintillante come l’albero di Natale addobbato d’oro alla fine della strada.
Arrivata a casa, accolta dai gorgheggi e dai vocalizzi stonati del circondario – ormai si sentono a tutte le ore, non più solo al mattino –, Cecilia non ha alcuna voglia di mangiare, anche se l’idea di aver comprato un abito così bello la consola.
Perché non le hanno detto niente? Julia, i colleghi, i musicisti, il direttore? Perché?
C’è qualcosa di vivo, da qualche parte nella sua gola, e non può dirlo a nessuno.
Dopo il Requiem di quest’anno, non accetterà un altro ingaggio per l’anno successivo. Questo verrà anche inciso, ed è sufficiente, per lei. Ingaggi non ne accetterà più. Deve starsene tranquilla per un po’. Fare una vita meno stressante. Pensare a se stessa. Magari rifarsi il guardaroba. Il pensiero la tranquillizza.
Dopo il calo dell’adrenalina, Cecilia si addormenta sul divano; è un sonno profondo, nero.
Fai come vuoi, ma farai una brutta fine.
Cecilia si sveglia di colpo. Fuori è buio, ma del resto in questo periodo dell’anno il sole non sorge mai del tutto, rimane appena appoggiato sopra l’orizzonte. Quante spese, pensa Cecilia. Chissà in che situazione sarà il conto in banca. Ma non lo controlla. Lo farà, ma non ora.
Judex ergo cum sedebit
Cecilia esce di nuovo; Stiesing è ancora aperto.
Rientra a casa, appoggia i sacchetti accanto al divano, si cambia e si mette a letto; è stanchissima, non ha alcuna voglia di mangiare.
Vede una distesa di erba verde brillante, sovrastata da un cielo completamente sereno, azzurro acceso; il sole è a picco – sarà luglio? – le ombre dei pochi eucalipti sono corte, deve essere mezzogiorno; il frinire martellante di dieci, cento, mille, diecimila cicale nascoste nell’erba si abbatte imperioso su ogni cosa.
Improvvisamente, tutto tace.
Un lontano suono di campane.
Le prime battute dell’Introitus.
Requiem aeternam dona eis, Domine
et lux perpetua luceat eis
Ancora campane.
Ma non è possibile, le campane sono prima.
Silenzio.
Cicale. Il frinire di dieci, cento, mille, diecimila cicale.
Qualcosa solletica la gola di Cecilia; non può fare altro che tossire.
Tra gli spasmi e i conati, che non le lasciano tregua, Cecilia accende la lampada accanto al letto.
Tossisce, tossisce, c’è qualcosa che deve espellere.
Quidquid latet apparebit
Qualcosa le esce di bocca, dopo averle grattato la gola con violenza, e le resta in mano.
Con la gola in fiamme, Cecilia si osserva il palmo, la vista offuscata per lo sforzo.
All’inizio non capisce.
Poi vede.
Un’ala.
Sei zampe, alcune spezzate.
Le placche di un frammento di esoscheletro.
La testa cava di un insetto.
Finalmente.
È uscita a pezzi dalla sua gola; non può darle più fastidio.
Niente resterà impunito: Cecilia non può trattenersi dall’intonare, trionfante, quel passaggio.
Nil inultum remanebit
No, non è morta.
È più viva che mai, non solo: canta a ritmo più serrato di prima.
Cecilia si guarda la mano; sono solo pezzi di esuvia.
No, non è morta.
Cecilia getta tutto via, con orrore.
Cecilia non dorme più, non mangia più; passa quasi tutto il proprio tempo sul letto, truccata e vestita di tutto punto, in preda alla tachicardia e alla nausea, sperando di tranquillizzarsi, di addormentarsi. I gorgheggi e i vocalizzi stonati in lontananza sono sempre più frequenti, o forse meno; Cecilia non lo sa più, e del resto nulla ha più importanza.
Non può raccontarlo a nessuno: nessuno ti crede, se una cicala ti fa la muta in gola, né se canta perché è svegliata dalla tua voce. Ti prendono per pazza. Sei pazza.
Sul divano, cinque cappotti, due neri, tre beige; due borse Louis Vuitton; dieci paia di scarpe nere col tacco; venti rossetti di Chanel, di tonalità che spaziano dalla terra di Siena al rosso Parisien; cinque abiti neri, di cui uno ricoperto di paillettes. A un certo punto, la carta ha smesso di funzionare: non importa. Uno strato di polvere ha reso tutto opaco in sala; il copritavola della bisnonna è ingrigito.
Di tanto in tanto parte il disco del Requiem, nella testa di Cecilia, a portarle un po’ di conforto, ma riposo, quello mai.
Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit
Nil inultum remanebit
Il Requiem.
Il concerto.
Che ore sono? Che giorno è?
Cecilia è già pronta; si guarda allo specchio, indossa il cappotto, e si precipita al Duomo.
È la sua ultima esibizione, ormai lo sa, ma il suo giudice ultimo, quello sarà il pubblico.
Judex ergo cum sedebit
I venticinque minuti dello spettacolo trascorrono senza che Cecilia se ne renda conto. Ha soltanto cantato, come sa fare, come ha sempre saputo fare. Come può fare ora, che ha una cicala in gola; in fondo, chi se ne importa.
Eppure, gli applausi commossi del pubblico scuotono Cecilia; con buona pace di Magdalena, gli applausi più forti sono per lei.
La cicala ha frinito tutto il tempo, ma nessuno se n’è accorto, nessuno sembra in grado di sentirla; o forse fanno finta. Tutti.
Cecilia può ritirarsi dalle scene.
Requiem aeternam dona eis, Domine
et lux perpetua luceat eis
* * *
«Hai registrato tutto?».
«Uhm, sì».
«Perché quella faccia?».
«È tutto perfetto, praticamente già pronto, tranne da 10’51” a 11’15”. Ma c’è una cosa che non capisco, non so se devo ancora pulire la traccia, e più di così non riesco».
«In che senso?».
«Senti qua».
Judex ergo cum sedebit
Quidquid latet apparebit
Nil inultum remanebit
«Senti?».
«Strano. Se non fosse novembre, direi che in sottofondo c’è una cicala che frinisce».