Amuleto
un racconto di Donata Cucchi
Maddalena stava morendo e io decisi che era il momento di prendere un gatto.
A differenza di me, lei non aveva mai frequentato gatti; tuttavia, quando ospitavo Ulisse, l’enorme gatto nero dei miei genitori, si dimostrava incline ad apprezzarlo. Ulisse stava nascosto tutto il giorno, ma se guardavamo un film sul divano sbucava dal suo nascondiglio e ci fissava. Guardava, scappava, poi tornava a guardarci. Alla fine, saltava sul divano e si addormentava.
Sapevo che Maddalena stava morendo più di quanto volesse rendersene conto lei. Notai che parlare di Ulisse la faceva ridere e che era contenta quando lo dovevo ospitare.
Presi contatto con un gattile e andammo a vedere i cuccioli in un pomeriggio di novembre, con la pioggia che scrosciava. Per quanto fosse un rifugio, il gattile mi sembrò comunque una prigione, che al posto delle sbarre aveva reti.
Ci accolse una donna pratica, con occhi azzurri, scintillanti sotto il pastrano. Ci portò a vedere i cuccioli, che dalle dimensioni non dovevano esserlo poi tanto. Notai un gatto bianco e nero acciambellato sopra un cuscino. Lo accarezzai. Sul muso aveva una macchia come d’inchiostro. «Alì è il nostro falso invalido», disse la donna. Il gatto si alzò e vidi che la zampa anteriore, sinistra, era storta all’altezza del polso. A quanto pare era un invalido vero. «Può camminare?», chiesi. «Eccome», rispose la donna. Alì si muoveva in effetti con agilità. Sulla coda scura il pelo disegnava un anello bianco. La donna ci fece vedere altri gatti, si capiva che su quello zoppo avrebbe scommesso poco. Indicò una tricolore magrissima che ci gironzolava intorno: «Lei è Stella». Li adottammo entrambi.
Tornando verso casa ragionammo sui nomi. Stella andava bene, ma Alì no. Proposi Amuleto, perché è il titolo del nostro romanzo preferito di Bolaño: così Alì diventò il nostro Amuleto.
Li andai a prendere un martedì, da sola. La mattina ero stata in un negozio di articoli per animali a procurarmi cibo, trasportini e lettiere.
Per qualche giorno li tenni chiusi in una stanza, come mi avevano consigliato. Stavo con loro, li nutrivo e li accarezzavo. Lui si faceva toccare, lei mi guardava soltanto, negli occhi una specie di vibrazione. Se allungavo la mano, si allontanava. Quando li feci uscire per la prima volta, Amuleto corse per tutta la casa, come impazzito, con una felicità che era quasi panico.
Mi scoppiava il cuore. Per lui, principalmente. Mi sdraiavo per terra e lo guardavo negli occhi, gli dicevo: «Adesso sei a casa». Nonostante la zampa offesa era disinvolto, giocava, si arrampicava e correva. Se camminava, però, incarnava proprio l’immagine dello storpio, e in quei momenti lo amavo anche di più.
Prendemmo il ritmo dell’amore. La femmina iniziò a farsi toccare, diventò affettuosissima. Comprai dei giochini, tante palline, una lenza e il tiragraffi. Mi piaceva il mattino presto giocare con Stella mentre prendevo il caffè e leggevo i giornali, e Amuleto alla finestra guardava gli uccelli, i passanti, i giardini. Ancor più mi piaceva, di notte, averli entrambi nel letto. Lei si infilava sotto le coperte, sentivo il suo respiro sui piedi. Lui si sistemava lontano e si avvicinava con lo scorrere delle ore. La mattina aprivo gli occhi e il suo muso macchiato d’inchiostro mi guardava dal mio stesso cuscino.
Li annusavo. Avevo imparato a distinguere l’odore selvatico e un po’ umido della femmina da quello delicato, come di talco, del maschio, che aveva il pelo folto e, nella parte bianca, sembrava fatto di piume.
Un pomeriggio sentii un miagolare violento e trovai Amuleto con una zampa incastrata al termosifone. Provai ad aiutarlo, ma si divincolava. Era inferocito e disperato.
Lo afferrai con decisione, riuscii a liberarlo. Quando finalmente l’ebbi in braccio, lui si rivoltò, mi azzannò il braccio con un morso forte, saltò via e corse a nascondersi.
Il morso aveva lasciato il segno, Maddalena era preoccupata. «È pericoloso essere morsi da un gatto», diceva. Io mi ero disinfettata subito, per me l’incidente era chiuso.
Piano piano, ma inesorabilmente, Amuleto cambiò. Prese a stare parecchie ore in camera nostra, seduto per terra vicino al letto, per infilarcisi sotto ogni volta che passando provavo ad accarezzarlo. Quando mi sedevo per terra vicino a lui, come spesso avevo fatto in passato, non mi saliva più sulle gambe. Mi guardava fisso, cominciava a muovere la coda, e se ne andava. La notte dormiva in una cassetta della frutta dove avevo messo una coperta di lana. Le prime volte andavo a cercarlo. Gli parlavo sottovoce, lo prendevo in braccio, lo portavo sul letto, aspiravo il suo odore buono. Stella dormiva tra le gambe di Maddalena, io appoggiavo Amuleto con cautela dalla mia parte, scostavo le lenzuola calde, entravo. Mi pareva fosse tutto passato, ma dopo meno di un minuto sentivo un piccolo tonfo e il suo passo sbilenco che si allontanava nel buio.
Maddalena morì all’inizio di maggio, sei mesi dopo l’arrivo di Stella e Amuleto. I suoi ultimi giorni li passò in un hospice, io andavo da lei verso le due e tornavo a casa nostra la mattina del giorno dopo. Era un posto bello, in qualche modo. Dalla finestra della sua stanza si vedeva la campagna, una lepre che correva controluce nel tardo pomeriggio. L’aspettavamo ogni sera – con quelle zampe dietro così enormi e davanti i due moncherini – e ogni sera Maddalena diceva: «Sembra Amuleto».