di Luigia Brandimarte


La odio la maniglia della portafinestra, è difettosa da anni ormai. Papà avrebbe dovuto aggiustarla, ma poi. 

Devi sollevare l’anta di destra e giocare con l’incastro per sbloccarla. Riesco ad aprirla finalmente, passo sotto la tapparella abbassata a metà ed esco sul balcone. La luce a quest’ora del pomeriggio non è più molto intensa, ma mi infastidisce lo stesso. Appoggio i gomiti alla ringhiera e guardo giù in cortile: due bambini con la maglia della Juve si sfidano ai rigori, tra il palo della luce e il tronco del pino.

Ho freddo, tiro su il cappuccio e mi stringo nelle maniche della felpa. Mi siedo in terra, sullo scalino del balcone e accendo una sigaretta, l’ultima di quelle che mi ha dato Marina. Fumiamo insieme dopo la scuola, prima di tornare a casa, papà ancora non l’ha capito, o a quest’ora mi avrebbe già sgridato, mamma chissà.

Chiudo gli occhi e mi accorgo che per pochi secondi riesco a non pensare a niente. Come se non ci fossi. È bellissimo. Non sapevo di poterlo fare, non pensare. Faccio cadere la cenere della sigaretta a terra e chiudo di nuovo gli occhi. Ma adesso sento i piccioni tubare sopra di me, i bambini gridare e vedo i miei pensieri sbattere, da un ricordo all’altro. 

Il figlio dei vicini esce sul balcone a stendere il costume e l’accappatoio della piscina:

– Ciao Margherí!

È un pomeriggio qualunque, qui fuori. Faccio un cenno di saluto con la mano, tiro una boccata dalla sigaretta, senza nasconderla, poi mi alzo in piedi, la spengo contro il ferro della ringhiera e butto giù in cortile il mozzicone, lontano dagli juventini. 

Rientro, accosto la portafinestra, senza chiuderla. Mi fermo e guardo mamma, dall’altra parte della sala. Anche visto da qui sembra un pomeriggio qualunque. 

So che devo avvisare papà e Giada. Ma se lo dico a Giada, vorrà venire subito e le toccherà viaggiare tutta la notte. Meglio chiamarla domani mattina. E poi, meglio se glielo dice papà. Tiro fuori il cellulare dalla tasca e cerco papà tra i preferiti. Ha cambiato di nuovo la foto del suo profilo, ne ha messa una in cui mamma ci tiene in braccio, io e Giada, avremo al massimo tre e sei anni, le diamo un bacio sulle guance. 

Rimetto via il cellulare, tanto papà rincaserà tra mezz’ora: come ogni venerdì, porterà un mazzo di fiori per mamma e li sistemerà nel vaso di ceramica rosso, poi le metterà lo scialle sulle spalle e spingerà la carrozzina verso l’ascensore; lei si lamenterà che non vuole uscire, lui le racconterà dell’arroganza dei clienti del supermercato, si fermerà alla panchina del parchetto, farà cenno a qualche conoscente di avvicinarsi, tradurrà la risposta di mamma alle solite domande – prendiamo un po’ d’aria, Angela? Ti ci porta Domenico alle terme quest’anno? -, le proporrà di mangiare la sogliola fresca fresca che le ha comprato, mamma scuoterà la testa, le dirà che gliela fa alla pizzaiola la sogliola, è buonissima.

Mi avvicino a mamma, sembra più giovane. Giada le assomiglia così tanto, hanno la stessa fronte alta, gli zigomi spigolosi e labbra carnose. La malattia le ha tolto tutto, ma non la bellezza. Neanche la morte gliel’ha tolta. 

Non ho mai visto un cadavere, papà non ha voluto che Giada ed io ci avvicinassimo alla bara dei nonni, voleva che li ricordassimo da vivi. Giada ha paura dei morti, io no. 

Mi inginocchio davanti alla sedia a rotelle. Accarezzo le sue dita, sembrano dita di bambola. Adesso è tutto fermo anche dentro al suo corpo: fermo il sangue, fermo il cuore, fermo il cervello. 

Le faccio una foto col cellulare, ma la cancello subito: si fotografano i morti? Ma poi la scatto di nuovo, alle sue mani e al suo viso. Non ne ha più volute di foto, da quando la malattia l’ha messa sulla sedia a rotelle: l’ultima risale a tre anni fa, l’ha fatta zio Franco al pranzo dei diciotto anni di Giada. 

Le gambe di mamma già cominciavano a non reggere più e noi cominciavamo a non capire cosa dicesse. 

Raccolgo il telecomando da terra, accendo la televisione sul suo canale preferito, e poggio il telecomando sulle sue gambe. È stato il tonfo che ha fatto quando è caduto – forse scivolandole di mano – che mi ha fatto andare in salotto. Pensavo che mamma dormisse, con la testa appoggiata sulla spalla destra e la bocca socchiusa. 

Pensavo che avrei pianto quando fosse morta.

Giro leggermente la sedia a rotelle, così quando rientrerà, papà la vedrà di spalle e avrà il tempo di salutarla dall’ingresso, di avvicinarsi e portarle i fiori.

Si portano i fiori anche ai morti, in fondo.

Torno in camera, accosto la porta, mi rimetto sulla versione di latino. Aspetterò che papà venga a dirmelo. 

Forse allora mi verrà da piangere.