Ritorno
un racconto di Davide Lepore.
Dario si arrampicò verso la cima della collina. Quando tornava in paese gli piaceva salire a visitare il centro storico, la parte più alta di Montalto. Lo faceva ogni volta, come una tradizione ormai. Il primo giorno, di mattina sul presto, si avviava a salutare il cuore del suo vecchio mondo. Si lasciava avvolgere dai ricordi di quelle mura tanto familiari, di quei vicoletti che non avevano più segreti. Era il suo modo per riconnettersi ai posti che si era lasciato alle spalle. Il paese è un animale capriccioso, che tornava a incontrare dopo tanto tempo; cui si riavvicinava piano, riacquistando la sua fiducia a piccoli passi. Ed era inevitabile sentire il peso della distanza a ogni ritorno.
A quell’ora, quasi tutte le persiane erano ancora chiuse, si incontrava per strada solo qualche viso diretto al lavoro. Di rado qualcuno lo riconosceva, per lo più poteva esserci un cortese scambio del buongiorno. A Dario piaceva così: quei momenti erano da godersi in solitudine, anche una breve chiacchierata avrebbe spezzato l’incantesimo. L’unico suono a tenergli compagnia era quello dei passi sui sampietrini illuminati dalla prima luce del mattino.
C’era qualcosa nel centro antico che lo attirava più degli altri luoghi di Montalto. Forse era solo l’anima del paese a volergli dare il bentornato. Il santuario dedicato al santo patrono si trovava proprio lì in cima, ma non era certo la fede a portare Dario lassù, tutte le volte. Almeno, non la fede da incenso e campane. Più probabile che fosse la vista dalla cima della collina a richiamarlo tanto: dal Castello, com’era nota l’area ai Montaltesi, il panorama era straordinario, si poteva scorgere ogni angolo del paese. Sì, doveva essere proprio quello il motivo.
Proprio accanto al santuario c’era la vecchia chiesetta un tempo appartenuta alla Confraternita del Santissimo Sacramento. Era stata ormai abbandonata da decenni e Dario non ricordava di averla mai vista in funzione. Lì di fianco, un piccolo muretto in mattoni delimitava la piazzetta che si apriva sulla miglior vista di Montalto. Era dove la prima passeggiata del ritorno terminava, in piedi su quel muretto a riempirsi gli occhi del suo luogo natale, immerso nella luce serena del mattino.
In quel punto, in quel momento, Dario si perdeva sempre nella stessa domanda: perché se ne era andato? Certo, lasciarsi la piccola provincia alle spalle gli aveva permesso di rincorrere opportunità qui impossibili da immaginare. Ma era davvero quello che contava? Quello che contava per lui? Perché sì, le opportunità si erano concretizzate, ma era solo in quel luogo, dove il suo sguardo si perdeva sui dolci pendii dei colli circostanti, che si sentiva veramente completo. Lontano, sentiva il peso amaro del suo tradimento.
Mentre il vento agitava piano i risvolti della sua giacca, portando in cima al paese il profumo del pane appena cotto dai forni giù a valle, Dario si volse a osservare il portone della piccola chiesa cadente, diroccato dagli anni di abbandono. Si accorse in quell’istante di non aver mai provato prima a dare un’occhiata all’interno dell’edificio attraverso la grossa toppa della chiave. In tutti quei decenni il pensiero non lo aveva mai sfiorato. Si avvicinò al portone, carico di curiosità.
Dalle finestre della chiesa penetrava molta più luce di quanto si potesse pensare da fuori. Sembrava quasi che lo spazio al di là di quel vecchio portone marcescente brillasse di una luce omogenea, come quella di un pomeriggio dal cielo velato, non sereno ma non ancora nuvoloso. Una luce piena di calma, che ammorbidiva ogni ombra e cancellava ogni drammaticità. Chissà perché Dario s’era immaginato quegli spazi sempre al buio; anzi, si rese conto di non aver mai veramente provato a figurarsi l’aspetto interno di quella piccola chiesa, che pure era stata parte del suo paesaggio per tutta la vita. Come se un dentro non fosse mai esistito, solo quell’involucro, quell’esoscheletro ormai privo di vita da quando l’ultimo fedele si era serrato alle spalle il grosso portale. Un brivido d’eccitazione gli scese lungo la schiena al pensiero di riuscire finalmente a sbirciare quel segreto dopo quarant’anni. Si sentiva come se posasse per la prima volta gli occhi su quel luogo, quasi come se lo avesse scoperto lui, per primo, in quel momento. Un paesino come Montalto sembrava non poter contenere un mistero così grande. E invece la sua Irpinia continuava a sorprenderlo ogni volta che tornava. Le panche erano ancora in fila come nell’ultimo giorno d’attività, ora velate da una coltre di polvere. Mobili e statue erano disposti alle estremità delle navate e ricoperti da teli di plastica opaca che si gonfiavano dolcemente al ritmo degli spifferi d’aria. C’era una pace in quell’immagine che contrastava con la consapevolezza del lungo abbandono. In qualche modo gli sembrava che ci fosse ancora vita al di là del grosso portone. Sollevato da un delicato vortice d’aria, un drappo rivelò per un istante la statua del Cristo crocifisso, riversa obliquamente contro una delle vecchie panche. Dario fece in tempo a osservarla con tutta l’attenzione del caso, memorizzando ogni possibile dettaglio del viso. Un istante che gli sembrò infinito, il viso del Cristo impresso nella mente. Non ricordava di aver mai visto prima una scultura così bella: il volto, accarezzato dalla luce armoniosa della stanza, mostrava tutta la stanchezza del dolore, ma levigata da una pacifica accettazione, il momento del sacrificio e del perdono catturato per sempre nel legno. Pensò a un volto sofferente sull’orlo di un sorriso.
«Tu sei il figlio di Ernesto?»
Sobbalzò, colto di sorpresa. All’angolo della chiesa era apparso un uomo anziano, dal volto noto. Gli ci volle un attimo per riprendersi dallo spavento e riconoscere l’uomo come il vecchio diacono della parrocchia. Il cuore gli batteva forte in petto, come se si sentisse colto in flagrante nell’atto di spiare qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.
«Tu sei Dario, giusto? Il figlio maggiore di Ernesto»
Il sorriso sul volto dell’uomo sciolse ogni senso di colpa nel suo cuore: un’inaspettata assoluzione.
«Si, sono io», rispose.
«Da quanto tempo! Come vanno le cose in Inghilterra? Si lavora?»