Fianchi
un racconto di Giampiero Pancini
Fu l’ultima estate in cui fecero l’amore; quella dopo, quella che seguì la pandemia, li avrebbe trovati asciutti e sterili come guanti chirurgici. Ancora sorpresi, forse, che le cose fossero accadute. C’erano mattine in cui il corpo cercava l’altro, ma non azzardava il primo passo. Tenevano le mani a posto per paura di essere allontanati, respinti come una proposta commerciale.
Invece quell’ultima estate si erano persi a mangiare sulla terrazza che era il tetto della casa, a guardare nel buio le luci che bucavano la costa di là dal mare. Si azzardavano a riconoscere il profilo di Erice segnandolo in alto, ad avvicinare le mani, a finire a far l’amore sulle mattonelle ancora calde di sole. Rapidi, affamati dalle lunghe giornate assieme.
Da quando Pino aveva litigato col panettiere, era Marco a fare la spesa. Scendeva il gradino della bottega che serviva l’isola e, attraversata la tenda anti mosche, precipitava negli odori degli affettati, della frutta, davanti al fornaio e alla signora alla cassa con lo spolverino a rigoni. Pino diceva che il pane non poteva costare così tanto, e neppure lo sgrassatore, il prosciutto, i fazzoletti; Marco taceva, per prolungare l’effetto di quiete che sperava dalla vacanza. Aveva scelto lui di finire su quello scoglio isolato, Pino già si aspettava il mare perché quell’anno non era il suo turno di decidere la destinazione. Ma pagare più che a Milano un pane gommoso e salato, non lo poteva accettare. Così allo spaccio andava Marco, e per la sera si faceva lasciare qualcosa di pronto, a piacere del panettiere, che lo serviva con l’indifferenza che gli isolani riservano agl’intrusi.
Non avevano fatto il giro in barca quel giorno: Pino aveva accusato Marco di volerlo far soffrire di mal di mare. Si erano lasciati perdere nei sentieri che salivano al faro, tra le rocce appuntite di quel pezzo di montagna scaraventato nel blu, sotto i pini che facevano un’ombra necessaria. Dal faro, diroccato e troppo bianco, erano tornati indietro a temporeggiare, un libro aperto nella mano di ognuno al tavolino del caffè. Il sole picchiava e faceva sudare i bicchieri. La casa affittata li aveva accolti un po’ brilli, con le mosche che ronzavano tra due finestre. Avevano mangiato di sopra, all’aperto, seguendo l’ispessirsi della luce e, finita la cena, annoiati e distratti, avevano sentito aprirsi la porta della terrazza di fronte: un corpo unico ma doppio, affrettato, era precipitato come uno scoppio sul pavimento, al di là della ringhiera. L’uomo, disteso sopra il vestito a fiori di lei, si era frugato tra le gambe e aveva assestato un colpo tra quelle di lei, provocando un’alternanza di gemiti senza variazioni di ritmo, fino a che entrambi, miracolosamente rapidi, emisero un mezzo grido che li fece cadere fianco a fianco. Ansanti. L’eco dei respiri fu proiettato dai muriccioli verso gli spettatori non visti. Marco alzò la testa e finse di cercare a occhio nudo la stella doppia sul manico dell’Orsa Maggiore. Pino non spostò la sedia e restò a fissare i corpi staccarsi e tornare doppi. Bastò che chiudessero gli occhi per pochi secondi per credere nella propria invisibilità, e vedere i due andar via com’erano venuti.
«Era il fornaio» scommise Pino in una risata, «ma lei?» Si avvicinò a Marco, che si strinse nelle spalle e ne rifiutò la mano che gli scendeva nelle mutande, accettò che la sua fosse guidata e lo masturbò, guardando quel punto della terrazza ora vuoto, che irradiava una luminosità da mucillagine marina.
La mattina dopo scesero che il sole era alto. Per la cena aveva lasciato detto al fornaio di pensare lui a tutto: ne aveva guardato i capelli scuri, seguito le mani robuste mentre annotava l’ordinazione, e le labbra circondate dalla barba vecchia di un giorno, piene, immobili, pronte ad aprirsi e a spargere profumi. Pino era fuori, in attesa, nell’odore del pane che scendeva nel vicolo:
«Allora? Era lui il culo impetuoso?»
Marco annuì, mentre una serie di scampanellii riempiva il silenzio tra i muri: messaggi, quello era uno dei pochi punti dell’isola dove il telefono prendeva. In spiaggia passarono la giornata a contare gli attracchi degli aliscafi e a inseguire l’ombra dell’ombrellone che si erano procurati sulla terraferma. Spiarono tra i pochi turisti distesi o che imboccavano i sentieri verso altre calette, per individuare la sconosciuta col vestito a fiori. Solo un’atletica tedesca ricordò loro le forme della donna, ma non si spinsero oltre quando la raggiunse il marito con un bambino bello come un ritratto.
In terrazza aspettarono mangiando che si facesse buio. Pino spense la lampada a led e sistemò gli incarti dei cibi in modo che non li portasse via la brezza e, fingendo di controllare la luminosità incerta di un borgo sull’isola grande, invitò Marco a restare a tavola.
«Non era neppure in panetteria, stasera» protestò: «Chissà dov’è andato.» Ma restò, e capì che non si sarebbe mosso fino a che l’amplesso non si fosse consumato un’altra volta.
Stavolta, dopo lo schianto della porta, ci fu un inseguimento, risa, lei aveva un abito bianco, ampio, che ruotava ruotando lei stessa, e quando si raggiunsero, in un angolo dove svettavano antenne, si spogliarono in fretta per scivolare a terra. Il corpo di lei era così sottile, quasi trasparente sullo sfondo, i capelli corti le disegnavano il cranio. Il bicipite di lui, colorato dal tatuaggio che sapevano essere la Trinacria, la teneva da sotto il costato, la curva della schiena terminava nei glutei poderosi che inarcò a terra, e ancora una volta frugatosi tra le gambe, spinse in avanti per entrare in lei con un’unica mossa. Gli spettatori piegarono la testa, per non soffrire l’impedimento di un muricciolo.
Quando se ne furono andati Pino riaccese la luce, e si spogliò davanti a Marco canticchiando un tema da film sexy, gli lanciò la maglietta, gli mostrò di essere eccitato, lo convinse a spogliarsi e a raggiungerlo sul pavimento. Fu il ricordo di quel movimento del bacino, che Marco aveva visto anche quella sera, quell’avanzare come un diritto, prepotente, che lo invogliò a partecipare: ma, al contrario degli altri, loro due sembravano atoni, ordinari, concentrati su immagini di repertorio, trascinati dall’azione meccanica del masturbarsi l’uno col corpo dell’altro.
La mattina dopo, mentre annotava l’ordinazione, Marco si figurò che il fornaio si soffermasse a guardarlo di lato, la faccia arricciata in un’espressione soddisfatta, un’espirazione più lunga del normale. Quell’uomo doveva averli visti! Si sentì scoperto e provò l’urgenza immotivata di nascondere il desiderio che gli suscitava. Arrossì, pagò alla cassiera che non gli era mai sembrata tanto ostile, e uscì.
«Lo sa, lui lo sa!» sibilò a Pino, mentre la tenda anti mosche emetteva ancora fruscio. L’altro sollevò gli occhi dal cellulare e lo schernì: se li aveva scoperti a spiarlo, non sarebbe ritornato già la sera successiva: «A meno che non sia un esibizionista.» Poi si allontanò, lasciandolo indietro a temere di essere raggiunto dallo scherno dell’uomo che ora fumava sulla porta.
Sotto l’ombrellone Marco passò la giornata a riportare la concentrazione al libro, ma il pensiero rotolava giù di continuo, fino in fondo al burrone dov’era il movimento di quei glutei. Quando non era su quel desiderio, scacciava l’inquietudine di essere additato come guardone. Aveva ragione Pino: se avesse saputo di loro non avrebbe ripetuto l’impresa, ma nel caos dei pensieri non vedeva l’ora di andarsene al bar e sancire con l’alcol la fine della giornata: era lì per riposare, non ad arrovellarsi. Tra due giorni, a quell’ora, sarebbero stati a Milano, scaricati dall’aereo nella città dove tutti evitano di guardare nelle finestre degli altri, o non ammettono di farlo.
Dopo la doccia trovò Pino in terrazza che apparecchiava con cura, aveva tolto dal frigo la bottiglia di bollicine che avevano trovato con un biglietto di benvenuto. Si misero a sedere che già scuriva: settembre accorciava di molto le giornate. Fu Pino a condurre la conversazione, parlandogli a lungo dei progetti che sarebbero partiti con l’arrivo di ottobre: cinque nuovi clienti per cui curare campagne pubblicitarie. Gli occhi tornavano alla terrazza di fronte, e Marco annuiva: in banca, da lui, nulla sarebbe cambiato, e il suo uomo diventava ridicolo mentre s’inventava argomenti nell’attesa che il terrazzo di fronte fosse riempito dai due amanti. Poi, al buio l’incontro si ripeté: ancora quei due, ancora quel vortice, il desiderio, ancora lo spogliarsi, il movimento dei fianchi di lui, affamati e arroganti, che penetravano lei, ancora i suoni coordinati, ferini. La passione.
Quando se ne andarono, il fornaio si girò appena verso di loro e, senza guardarli, sorrise.
Pino prese l’iniziativa cercandolo; Marco gli si buttò addosso con ferocia: non voleva più lui, forse voleva l’altro, non capiva, di certo ne voleva la passione, la smania nel possedere, voleva essere desiderato, non gli bastava il blando cercarsi per necessità, l’orgasmo stimolato dai porno a cui si arrendevano sempre più spesso. Bastò poco a Pino per capirlo e sottrarsi, spaesato, a quella nuova strana fame. Assolvendosi per non essere il fornaio, scese di sotto, più offeso che addolorato.
Evitarono la bottega l’ultimo giorno, fecero tutti i loro acquisti al bar e bevvero a tavola un vino corposo. Ubriachi, al buio, in attesa, in silenzio, le mani infilate sotto le cosce, le spalle trattenute. Le luci vibrarono sulla costa, un blackout fece scomparire il paese sul picco, più lontano si vedevano i lampi di un temporale. Quando i due amanti non si presentarono finsero indifferenza, non dissero una parola ed evitarono di cercarsi.
Mentre Pino dormiva al piano di sotto, Marco passò la notte a fumare le sigarette vecchie e accartocciate scovate nel cassetto delle tovaglie. Respirava a fondo, mentre il mondo di là dal mare gli offriva lo spettacolo del suo scorrere indifferente. Provò la smania di fuggire, di chiuderla lì per non disprezzare il suo uomo come lo disprezzava adesso, di riportare tutto al momento in cui l’aveva conosciuto, perfetto e indistruttibile come ogni amore nuovo. Restò, finché non riapparve il paese sul picco.
In inverno Milano dà il meglio di sé, l’umidità tinge le facciate dei colori scuri che le si addicono. Marco guardava la sua cartella, pronta per l’ufficio, lo zaino di Pino era uscito di casa un paio d’ore prima. Tra le nubi si affacciò un raggio fulmineo di sole, uno solo, che andò a colpire la finestra della cucina di fronte. Gli ricordò l’aliscafo del ritorno, la luce che bucava le nubi e sul mare spargeva raggi da teatro. Davanti a loro sedevano i Tedeschi: lei a sinistra, lui a destra, il bimbo da ritratto in mezzo. Lei non aveva parlato fissando la paratia, lui giocava col figlio senza guardarla: solo il bambino penetrava la parete che li divideva. Marco, seduto dietro, aveva creduto di sentire l’odore aspro del dolore di lei. Pino, felice che il telefono prendesse, aveva già cominciato a lavorare.
Bevve il caffè guardando fuori: avrebbe piovuto ancora. Poco male, lì non faceva differenza. Era laggiù che si era fermato tutto o poteva dire che tutto era restato sull’isola, abbandonato sul molo o nascosto chissà dove, e adesso che entrambi per il sesso si rivolgevano altrove, quel tornare indietro per mare gli era apparso definitivo, come si chiude un libro che forse ci è piaciuto.
Lasciò la tazzina sul tavolo e uscì, mentre il telefono esplodeva di messaggi.