un racconto di Ilaria Padovan

 

El barchìn xe arrivà quando xe morto el Bèpi. 

Xe pròpio arrivà, non l’ho preso io – con che schèi. E il Bèpi non è morto, si è sparato. Che xe diverso. Me l’aveva portà lei el barchìn, ma, allora, ero troppo impegnato a pensare al resto per accorgermene.

Col Bèpi, quando le cose già non andavano più bene, andavamo agli Scardovari, a cena. Lui le prendeva malvolentieri vongole e bevarasse, le mangiava lo stesso per non farmi dispiacere, che io quelle mi potevo permettere, che lui manco più niente, e lo sapevamo che mi invitava a cena lui per non restare da solo ma che, alla fine, ero io che dovevo pagare – e con che schèi. Al Bèpi, quando era imprenditore e le banche lo lasciavano fare, piaceva mangiare lo spadón. Mì, preferìa a minudàja, ma volevo solo vederlo felice, così magnava e lui mi raccontava delle russe con cui si fidanzava su internet e io pensavo a mia cugina, che era andata a fare l’istruttrice di sub in Arabia e jera restà insìnta e l’avevano mandata via e era tornata a casa con una pancia ma senza marito, al fratello del Bèpi che faceva il camionista e, una notte, era tornato abbracciato a una rumena che ci puliva la casa, ma noarti diseàmo che voleva solo rubarci tutti i schèi, ai schèi del Bèpi che, se ne aveva ancora, jera ora di tirarli fòri pa só dita. 

Una volta, a magnà o spadón, xe vegnù anca só mama, la Tilde, che si vergognava sempre, che non era mai stata in un ristorante e preferiva mangiare con le mani. Che aveva cresciuto anca mì, come figlio suo quando aveva capito che era meglio tenermi fuori di casa e a mì pare, quando xe vegnù a cercarmi, ghe avéa dito che loro non se li meritavano i sentimenti e mi aveva tenuto dietro la gonna rammendata e a casa ci ero tornato tanti anni dopo, da grande. Alla Tilde, el Bépi la prendeva in giro: le aveva ordinato la carne di sirena, quella sera là dello spadón, per vedere se la mangiava oppure no e la Tilde mi guardava per capire se era matto suo figlio oppure era diventata matta lei. Alla fine, era arrivata l’anguilla e la Tilde aveva scoperto che ci piaceva el bixàto, anche se era più pratica di polli e uova e galline. Xe stà a prima òlta ca ridava, a Tilde. Se sganasàa pròpio. Quando il paese ci rideva dietro, invece, de só putàne russe, la Tilde non aveva detto niente. Nemmeno io: non l’avevo mai difeso. Il giorno del funerale, qualcuno diceva di averle viste per davvero: ce n’era una macchina piena. Erano bionde, con le pellicce e gli occhi chiari: andavano al camposanto. Mì avéa i òci masa sgiónfi per vedere qualcosa, così, non le ho conosciute, le sue fidanzate.

La laguna non aveva risposte, jera sempre stà solo una grande dimànda, per me, la Tilde, il Bèpi, per la bassa, pa padania. Per questo morsegòto marcio di mare. Non mi era rimasto un altro posto dove stare. Casa mia se l’erano mangiata i debiti, come i miei fratelli. Casa del Bèpi, non ci volevo tornare. E la Tilde, la Tilde jera malà. Non potevo guardarla morire tanto piano quando suo figlio era scoppiato così, in un colpo soltanto. Così, non ci andavo più dalla Tilde. 

Pensavo di prendere una casetta, di quelle dei vongolari. Magari potevo imparare anch’io. O anche solo aiutare. Guardavo quella laguna finché mi usciva il sangue dal naso: volevo volerla. Volevo che il mare fosse il mio sogno. Volevo che scappare lontano fosse il mio sogno, così l’avrei potuto fare. Ma mi veniva sempre da voltarmi indietro, verso tutto quel cemento armato: anche io, come la Tilde, appartenevo ai polli, alle uova, alle galline. Alla terra che non sapeva volare. Col Bèpi non avevamo mai avuto sogni. Fare schèi, solo quello. E, adesso, di notte, davanti a quel mare nero come il male che si mangiava la Tilde, non sapevo più se era andata meglio a me, che non li avevo mai avuti, o a lui, che li aveva perduti. Xe stà lì ca xe arrivà el barchìn. Come una risposta a una domanda sbagliata.

No savìa mìa guidàrlo: el Bèpi no avéa mai avù la barca e se c’era qualcuno che poteva fare una cosa così era lui, mica io. Non ne capivo neanche molto, solo, non mi sembrava una barca per pescare e lì eravamo in acque di vongolari, non capivo da dove arrivava, se era successo qualcosa, se dovevo chiamare qualcuno. Ma era solo un barchìn. Non mi faceva paura. Pe na fiàta, calcòsa ca no me spaurìa. Anche se ero da solo, stavolta, davvero. Così, ci sono salito. Mi ci sono seduto dentro, a so stà sentà per un po’. Mi chiedevo che cosa avrebbe fatto il Bèpi, che cosa avrebbe detto la Tilde. Verla ridare, darecà: cosa avrei dato. Il barchìn si è mosso da solo – jera éla, ma no savìa mìa – così mi sono alzato, ballava quel legno, sbalugàan le mie ginocchia, ma il barchino viaggiava e io non avevo paura. Mi vedevo la vita davanti, dentro al barchìn, senza più bisogno di case, solo di acqua scura sotto e legno attorno, mentre, veloce, tagliavo i sogni degli altri, io che non ne avevo mai avuti, ma adesso avevo una barca che andava da sola. Ci ho dormito dentro una notte, sul fondo: me paréa sentìr i pés ca cantàan. Cantàan da minudàja e déo spadón e io pensavo che non era mai stato tanto bello dormire, anche se avevo freddo, e mi si cariavano le ossa e pensavo a morire.

Andavo di freccia di giorno, dormivo di gelo la notte. Un giorno sono sceso dal barchìn, sono andato a prendere i soldi che avevo nella scatola dei biscotti dove la Tilda teneva aghi e cucito, quelli che avevo da parte per le cene col Bèpi agli Scardovari, e gò comprà cuèrte e penèlo e pitùra. 

A gò chiamà Bèpi anca el barchìn.

Xe lì, ca a gò vista.

Sono caduto in acqua. Scivolato. Lei non l’ho mica trovata. Ho bevuto, quello sì. Sono stato sotto poco, con la testa, ma quando sò tornà su pioveva. Scravasàa pròpio. Vèla ca, a tempesta!, gò pensà. Ma mentre pensavo e gòse jeran schìe nei òci e non vedevo più niente e mentre pensavo mi andava di traverso tutta quell’acqua da sopra e da sotto: negàa. Volevo finalmente qualcosa, gridare volevo, chiedere aiuto, ma bronbolàa de bole e bolixìne. Proprio non lo capivo da dove arrivava, d’improvviso, tutto quell’acqua, a tempesta, adesso, perchè. Mi preoccupava il barchìn. Affogavo, ma pensavo al barchìn: e se se spacàa?

«Lo mangiamo?»

«Shh!»

«Mangiamo?»

«Ma non vedi che muore così?»

«Ma se pensa solo alla barca!»

«Pensa che sia il suo amico, il barchìn

Me sò svejà tutto graffiato, sfrixà pròpio. Non pioveva più. La laguna era al suo posto, non si era mangiata tutto quel mondo. Il barchìn? Al barchìn c’ero sopra. Con me, c’era lei. Erano state le squame a tagliarmi: avrei voluto toccarle, ma mi facevano paura. Non sembravano quelle dei pesci, jeran fitte fitte come cortèi. Non volevo più toccare. Era lei che mi aveva salvato? Mi aveva salvato perché voleva mangiarmi? Era lei che sentivo cantare, la notte, o erano i pés? Jera diferensa? Pensavo a tutto quelle cose perché non la volevo guardare e perché mi sforzavo di non respirare tutto quell’odore di pesce che mi scarniva la gola. Éla sì me vardàa. Avèa una vescica soto l’òcio: sembrava sempre ca pianxèa. Mi ci sarei abituato, era solo una ciste: piangere in acqua era sciocco e quella sirena sciocca non era. La voracità con cui mi aveva afferrato il collo mi ha fatto paura: voleva solo capire se ero ancora vivo, si vede che gli occhi aperti non le dicevano niente. Lo avrebbe fatto ancora, di afferrarmi così: mi spaventavo ogni volta. Dopo la tempesta, capito che ero vivo, era scivolata via. Io pensavo al buco di quella che era una bocca, la sua, di un azzurro feroce e a come togliermi di dosso quell’odore.. 

La sirena tornava. Spuntàa dall’acqua senza vegnìr fòra. Spesso, non lo toccava nemmeno il legno della barca. Ma ero diventato bravo: mi accorgevo che c’era. Faceva come i pesci rossi ntea bòcia ca bronbolàn quando vengono su a cercare da mangiare. Lei uguale, un po’ più forte, che era più grossa di un pesce. Sentivo prima le bolle, poi mi affacciavo: òci e bòca avèrta, çelèsti. Se non le davo da mangiare, andava via. Se provavo a toccarla, andava via. Ma jera curioxa. Una volta, l’avevo sentita furegàre drénto a spasadùra: cercava i miei avanzi. Un’altra aveva trovato un laséto e se avéa fato un brasaléto, ma se ero io a darle qualcosa non lo prendeva mai. Solo mangiare. Così, quando non ero sul barchìn, raccoglievo i bisòl de la tèra, vermi cición rosa ca jera pièn. Non li masticava nemmeno. Chissà se je piaxèa lo spadón, el Bèpi sarìa stà contento. Io continuavo a darle vermi, ma non veniva sempre, così, per non buttarli, li davo ai pesci, quelli normali, e ogni volta che c’era lei tutti i pés venivano a vederla perché sapevano che c’era da mangiare. Avanti così, finché, un giorno, me robò un tòco de pan. Je piaxèa el pan: io gliene tiravo pezzetti, lei faceva andare veloce il barchìn. Poi, son dovuto scendere dal mare: la Tilda.

La Tilda jera pexorà. Stavo male a andare in ospedale, ma ci dovevo andare lo stesso, per il Bèpi. Anche se volevo stare sul mio Bèpi-barchìn. Anche se volevo vederla ridere ancora una volta, la Tilda. Ma, quando andavo, si finiva sempre a parlare del Bèpi e magari un sorriso, per le storie di quando jeràmo fantolìn, ma poi le veniva il groppo alla gola e si soffocava e dovevo andare a chiamare il medico di corsa. Non sapevo che dirle. Non aveva senso raccontarle del barchìn, per lei non c’era nessun’altra vita possibile. E lei lo vedeva che io una vita ce l’avevo ancora e che era lei e quel letto e quella stanza a farmi diventare triste e allora provava a scherzare e, a mì, me se spacàa el còre nel pèto du òlte. Pianxèa. Pianxèa mòndo, sopra il barchìn.

«Lo mangiamo?»

«Shh!»

«Perché piange? Sta bene il barchìn»

«Ma non vedi che soffre per la mamma del suo amico?»

«Lo mangiamo?»

Li sentivo io come li sentiva lei, i pesci di notte. Non parlava la sirena, ma mangiava tanto pane: per farmi contento. Quando ci ho pensato, avevo già deciso. E lei lo sapeva. Éla lo sapèa còsa volèa fare, ma non me l’aveva mai detto. Lo sapeva e non aveva fatto niente, come le bestie che ti vogliono bene.

«Tilda, ta gò fato na sorprèsa», non ero mai entrato là dentro con tanta luxe indòso. La Tilda mi faceva un sorriso, di cortesia, ma la sorpresa l’avevo davvero.

«Ta gò fato el budìn» – non poteva più mangiare cose solide la Tilda, l’acqua pure la strangolàa, il medico mi aveva spiegato bene che ci voleva una gelatina e io na xeladìa avèa fato – «budìn gusto puffo, come el xelà, Tilda, ca te piasìa tanto». Alla Tilda piaceva davvero il gelato al puffo, col Bèpi, la domenica, prendevamo sempre una vaschetta e facevamo finta di non avere più fame, così le restava tutto per lei. Gliene dò cucchiaino cucchiaino e intanto le avvicino la cannuccia per bere: ormai non le va più giù nemmeno il budino. Sorride, la Tilda: per farmi contento, le taglia la gola quel dolce che le piaceva tanto una volta.

«Tilda».

«Dime, fiòlo».

«Xe budìn de sirena», le faccio segno col dito sulle labbra, che non ce l’ha la sirena nella dieta. E ride la Tilde. Se sganasa, come quella volta là. Vorrei dirle che, stavolta, è davvero sirena, ma non importa, volevo solo farla ridere un po’. La lascio per la visita: le brucia la gola, ma almeno è felice.

Ritorno al barchìn.

«Lo mangiamo?»

La Tilda jera contenta.

«Lo mangiamo?»

«Adesso, sì».