un racconto di Matteo Pioppi


Secondo gli scienziati le frizioni mareali, cioè l’attrito tra gli oceani e i litorali provocato dall’andamento delle maree, sono improvvisamente rallentate, riducendo drasticamente la velocità di rotazione della terra. Nel breve periodo il giorno non durerà più ventiquattrore, bensì un anno”.

Sono ormai due settimane che alla radio ripetono questa frase quasi ininterrottamente, informando sull’imminente calamità che colpirà il pianeta tra qualche mese. In giro tutti hanno paura, fanno scorte di cibo, diventano avidi più di quanto già non lo siano e sperano. Sperano che a morire siano gli altri.

Ieri sera Dalibor, manifestando in questo modo il suo grande rifiuto, con il fucile da caccia ha sparato nel petto al suo figlio disabile e poi si è sparato in testa puntandosi la canna sotto al mento, scegliendo così la via più facile, l’estinzione. Le circostanze spesso ci sembrano inaffrontabili, traboccano di una viscosità difficile da rimuovere, colano. Dentro la gola, nelle arterie, nelle connessioni neuronali, coibentando tutto. Sono una coltre che isola e impedisce di vedere oltre, di guardare al futuro se non attraverso la nebbia, di immaginare qualcosa di altro e diverso e possibile. In queste condizioni soccombiamo, tutto dentro di noi diventa opaco, le soluzioni non si trovano, l’analisi della complessità diventa vana e corrode la poca pazienza che abbiamo accumulato. Sono direzioni, alla fine, direzioni da prendere per percorsi possibili.

– Le tenebre – dice Drago a Elvis – le tenebre ci stanno piano piano divorando.-

– Tu dici sempre cose negative, pensi troppo in negativo.-

– Le tenebre Elvis. A breve probabilmente tutto finirà o quanto meno non tutti riusciranno a sopravvivere, e noi con loro. Non senti quello che dicono alla televisione e alla radio?-

– Ma è difficile Drago, è difficile capire certe cose. Tu non puoi…-

– Tu Elvis hai la mente ridotta, certe cose non le capisci, non ce la fai. Riempimi il boccale per piacere. Guarda chi sta arrivando.-

La pelle di Lina risplende nella luce del bar, è come illuminata dalla sacra disperazione. Era molto amica di Dalibor, in una sola notte aveva perso assieme a lui anche uno dei maggiori punti di riferimento della sua vita. Nulla è andato perso, si ripeteva, nulla è andato perso. Bisogna andare avanti, ma avanti dove? Bisogna continuare, ma continuare dove? Si era risposta che la vita è un qualcosa di inevitabile, come il futuro o come le lotte, e che in qualche maniera avrebbero fatto. Questa risposta le dava un beneficio puntuale che durava alcuni minuti, poi la sua testa ripartiva nuovamente con la litania delle solite domande, bisogna andare avanti, ma avanti dove? Bisogna continuare, ma continuare dove?

Lina insegna all’istituto tecnico, quando stacca da scuola la strada che percorre per andare a casa passa dal bar di Elvis. Lui per quell’ora solitamente ha già messo fuori la griglia e ha iniziato a cucinare le sarde e i calamari per il pranzo. La imbarazza da sempre il grembiule che indossa, giallo e con la scritta Elvis in rosso, si sente a disagio per lui e vorrebbe sprofondare nel suolo per nascondersi. Quando Elvis la vede arrivare all’improvviso dall’imbocco della strada cieca la saluta da lontano con le pinze che usa per girare il pesce sulla griglia. Se mai succedesse qualcosa fuori e dentro di lui, sa che Lina ci sarebbe sempre, e lui per lei. Sa che se mai un giorno dovrà sentirsi frustrato, deluso, depresso, sa che lei ci sarà e lui per lei. Se lo ripete spesso. Io ci sarò per te Lina, qualunque cosa dovesse accadere, io ci sarò per te. Sei l’amore della mia vita Lina, sei la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto. Vorrebbe darle di più, ma l’incubo della povertà piomba su di lui all’inizio di ogni autunno, quando i turisti se ne vanno e non rimane più nessuno nel suo bar. Questo ottobre stava regalando soddisfazioni, poi la notizia alla radio e ai tg ha ridimensionato le previsioni delle entrate e si ritrova nuovamente al punto di partenza.

C’è però da dire una cosa, Elvis non ha problemi con la disperazione, quando c’è non la teme, riesce sempre ad arginarla in qualche modo, riesce sempre a porvi rimedio e incanalarla in qualcosa di costruttivo. È la sua capacità di resistenza che lo rende stoico davanti ai problemi, immune da ogni cedimento strutturale. Quando parla lo dice spesso che per lui i problemi non sono problemi, i problemi sono le cose che accadono nella vita. Tutto è un problema e tutto è la soluzione del problema, non bisogna mai avere paura, perché la paura ti mangia.

– Guardati Drago, guarda quanto sei brutto. Se la paura ti vede, scappa da te. Non sei buono da mangiare.-

– Se la paura prova a mangiarmi deve aspettarsi birra scura nelle vene.-

– Questa, fratello, è ottima. Io fossi in te le utilizzerei nuovamente.-

– Dici? Mi sembra un po’ troppo spavalda.-

– Non è spavalda, è vera. Bevi più di una Ferrari. Se vuoi ho una nuova frase per te, la posso estrarre dal mio repertorio. Quanto me la paghi?-

-Ti do 5 euro.-

-5 euro ben spesi fratello. Soldi e paura.-

– Soldi e paura?-

– Sì Drago, chiedimi soldi e paura.-

– Elivis, soldi e paura?-

– Mai avuti, Drago, mai avuti.-

Dalibor era il preside dell’istituto tecnico di Novi Jadran, un insegnante che si era preso la responsabilità di portare avanti un’idea educativa e pedagogica all’avanguardia. A Novi Jadran la sua morte è stata una shock collettivo, non si era mai sentito nulla del genere, del resto qui l’unica cosa di inesorabile è la corrosione del salino sugli edifici.

Per anni Dalibor è stato l’agitatore della comunità, organizzando eventi culturali, sportivi, spettacoli di teatro, concerti, provando a includere tutti. La sua idea era quella di formare persone disposte all’accettazione dei cambiamenti sociali senza timori né paure. Dalibor era l’ultimo baluardo contro la deriva nazionalista identitaria. In paese era apprezzato da tutti, era ammirato per la sua dedizione, per la sua volontà di ferro, il suo essere integerrimo, radicale, fermo.

Fino a una domenica mattina qualunque. Dopo aver chiuso il bar verso le cinque del mattino Elvis era passato in pasticceria a prendere la colazione per Lina. Sulla via del ritorno, poco dopo aver superato casa di Drago, aveva sentito due esplosioni e le aveva collegate immediatamente ai ragazzi che erano da poco usciti ubriachi fradici dal bar, aveva pensato toh quei maledetti hanno appena spaccato la saracinesca dell’alimentari, e senza farci troppo caso aveva continuato per la sua strada. Poco dopo mezzogiorno Lina l’aveva svegliato in lacrime, la notizia era arrivata: Dalibor aveva ucciso suo figlio e poi si era suicidato. Era incredula, continuavano ad arrivarle telefonate delle colleghe, non sapeva cosa dire. Sembrava fosse davvero la fine di tutto, lo conosceva da sempre e nonostante la differenza d’età era il suo migliore amico. Per tutta la comunità Dalibor era il pilastro a cui chiedere consiglio, era una sorta di saggio che al posto della mistica applicava il materialismo storico, sostenendo che la formazione doveva essere comprensiva di due parti: lavoro culturale e lavoro manuale, in mancanza dell’una l’altra era totalmente inutile e inoffensiva.

La domenica era solitamente il giorno in cui Lina sistemava il suo laboratorio, da quella mattina non ci avrebbe mai più messo piede. La pittura era il lascito dei mesi in ospedale a seguito di un incidente, una costrizione a letto post operatoria, una scoperta: la necessità di comunicare disegnando. In casa, in quella che avrebbe dovuto essere la sala da pranzo, aveva allestito il suo piccolo studio per dipingere. L’immaginazione di Lina è fatta di strati di vernice diluita, tracce di viso, tracce di un passato tangibile, scogliere a picco sul mare, realismo socialista, nuvole rosa, nuvole viola sul Carso all’orizzonte, iconografia giapponese, ombre e aperture. Dipingere è il suo modo di elaborare le tragedie, i vuoti, dissipare la tristezza, riempire di colori la felicità, riuscire a dare una forma alla gioia. Le serviva un futuro, se lo stava creando per necessità, ma con l’arte, le dissero le donne della sua famiglia, non si mangia. Una famiglia che proveniva dall’entroterra istriano, che per loro è sempre stato la culla di tutto: madre, nonne, zie, sorelle, compagne, tutte intente da sempre a rendersi autonome dagli uomini, ad autodeterminarsi nella vita, indomite, con i piedi ancorati al suolo dell’esistente. Dal giorno in cui prese in mano il pennino le dissero immediatamente di non farsi venire strane idee borghesi, perché con l’arte non si mangia le ripetevano di continuo, e l’indipendenza economica è il primo passo verso l’autonomia dal patriarcato.
Negli anni che le servirono per prendere il pezzo di carta e abilitarsi così all’insegnamento, nonostante continuasse a coltivare la pittura, nella sua testa c’era solamente la volontà di portare a termine i consigli della sua famiglia, costruendosi così una via autonoma che non dovesse per forza di cose dipendere dalle relazioni sentimentali. Le relazioni non sono la cosa più importante della vita, le dicevano, ma ne fanno parte in modo inevitabile. Non si trovano lì le motivazioni per andare avanti, ma in ogni caso servono, perché la tenerezza, il bisogno di contatto e di condivisione necessitano all’essere umano. Non la prerogativa, bensì la contingenza.

Dalibor fu l’incontro che le cambiò la vita lavorativa. In lui vide la persona con la quale costruire qualcosa di alternativo a quello che esisteva per inerzia, ricostruendo tutto quello che era stato perso negli anni, dando così un senso alla sua professione. Nonostante la differenza di età il rapporto di fiducia e stima li portò ad animare la loro comunità. Preside e insegnante strutturarono un binomio fluido capace di attrarre a sé persone smaniose di formarsi e condividere. Per tutti,Dalibor era il faro che mancava al porticciolo di Novi Jadran e proprio lui, l’uomo della speranza, l’uomo che nei decenni aveva forgiato assieme agli abitanti gli ideali di convivenza e di rispetto, aveva deciso di farsi fuori, ammazzando prima suo figlio e poi se stesso.

Lina non disegna più da due settimane, ogni volta che passa davanti alle vetrate della galleria cittadina vede i suoi quadri, ma non li sente più suoi. Tutto le sembra crollato dentro a un pozzo, l’unica àncora ora è Elvis. La sua capacità di resistenza, la sua forza e la sua intraprendenza ora le sono di aiuto come non mai, per non crollare, per non mollare il colpo. L’amore, si ripete, l’amore è una contingenza che Elvis è in grado di donare. Crede che questa conferma sia il tetto della loro casa, l’ha capito solo in queste settimane, sprofondate sotto al livello del mare, che lui è l’uomo della sua vita e crede di amarlo adesso come non mai, proprio ora che forse finirà tutto, che il mondo attorno a loro si sgretolerà. Ora che le frizioni mareali rallenteranno la rotazione sull’asse terrestre.
Elvis è in grado di non stressarla chiedendole in continuazione cosa c’è che non va, lui sa che le cose non vanno, sa che tutto le è crollato addosso e sa che a volte il silenzio aiuta più delle parole. Con il tempo Lina ha capito la forza della quiete, la sua devastante potenza analitica, le sue qualità contemplative e profonde. Quando le parole franano, quando non si trovano, il silenzio è la risposta. Chissà cosa farà ora che ha perso Dalibor e che sta perdendo il mondo così come lo conosceva, con i suoi schemi da combattere, con le contraddizioni da accettare, la sicurezza svanita di nascita-crescita-morte, la buona educazione, il rispetto. Si continua a ripetere in testa che bisogna andare avanti, ma avanti dove? Bisogna continuare, ma continuare dove?

Elvis invece è originario dell’Ungheria, i suoi genitori vennero a vivere in Istria quando lui era molto piccolo. Fino a una ventina di anni fa lavorava nell’industria locale di conserve ittiche, la fabbrica aveva chiuso con la fine del socialismo. Con i pochi soldi messi da parte è riuscito ad aprire il bar. Dell’Ungheria gli è rimasta addosso solamente la capacità di ballare in mezzo al vento della miseria, una qualità sempre più rara al giorno d’oggi. Di quando abitava lì ricorda il campo arido fuori casa, il cavallo che tirava di malavoglia il carretto, il pozzo in muratura per l’acqua, gli occhi azzurri di sua nonna che non parlava mai e dalla finestra di casa guardava il vento forte della puszta sferzare gli alberi in giardino. Ogni giorno era come se morisse appena dopo l’alba, il suo sguardo era accartocciato sulla percezione di qualche stimolo negativo letto nelle nuvole in cielo, nel loro colore, nel modo in cui il vento porta la polvere nel secchio del pozzo o la fa mulinare nell’aia.

Quando la notte torna a casa dal lavoro, Lina è già a letto, spesso gli chiede di stringerle i piedi con i piedi e le mani con le mani, per riscaldarla. Sono questi i momenti che piacciono a Elvis, quando si sta bene, quando non c’è fretta e ci sono solo mani che stringono altre mani per riscaldarle. Mentre aspetta che scenda l’adrenalina del lavoro per prendere sonno, con gli occhi aperti nel buio della stanza pensa a quanto è fortunato a riuscire ad amare così tanto, in questo modo così semplice. Quello di cui necessitiamo non è in vendita perché ci sono cose che non si possono comprare, lo dice sempre Drago, ci sono cose che non si comprano. Per me l’amore non si compra, l’amore è riscaldarti i piedi freddi Lina, è abbracciarti di notte mentre dormi, è portarti la colazione al mattino, è andare al mare assieme nei primi giorni caldi di giugno quando le spiagge sono ancora deserte. Amarti è credere in noi anche quando nemmeno noi ci crediamo più, è essere tenace, un’àncora, un approdo, è resistere a tutto, anche a noi due.

Il giorno in cui avevano dato la notizia delle frizioni mareali alla radio, Elvis stava servendo da bere a Drago, poco prima aveva guardato il cielo con gli occhi azzurri di sua nonna, ed era nero come il mare d’inverno:

– Cattivi presagi, non va bene così, non è questo il modo in cui devono essere comunicati.-

– L’inverno del nostro scontento – gli aveva detto Drago guardandolo triste, con in mano una birra scura.

-No no, niente scontento…freddo, l’inverno è freddo, quale scontento?-
– Somaro, è il titolo di un libro.-
Una volta rientrato a casa, come prima cosa Drago aveva acceso lo stereo ad alto volume selezionando i dischi più adatti da ascoltare in vista della fine del mondo.

Casa per lui è vita, qui c’è il suo studio da scrittore e nel piano interrato un piccolo studio di registrazione. Nella miseria economica in cui vive, gli unici soldi che ogni tanto arrivano provengono o dai concerti o dalle sceneggiature televisive che vengono accettate. Drago si sente continuamente insoddisfatto, non arrivato, non compreso del tutto. Irrisolto. Alla tv opinionisti e scienziati continuavano a confrontare modelli come fossero pronostici delle partite di calcio, tutti hanno il denominatore comune della catastrofe senza speranza. Drago non ci voleva pensare, voleva ignorare l’ineluttabile e ascoltarsi i Morphine mentre lavava i piatti. Questo è il suo modo di continuare a vivere per non impazzire mentre aspetta il cambiamento, tutto il resto è ancora immerso in mezzo alla nebbia dell’indefinito senza la possibilità di intravedere una soluzione.

Dalibor era il mio vicino di casa, sono stato io il primo a chiamare lautoambulanza. Quando al mattino lho sentita arrivare sono uscito di casa e mi sono incamminato nella direzione opposta, non volevo vedere la scena. In fondo alla via la domenica mattina c’è sempre il mercato ortofrutticolo, una piccola donna con il foulard sulla testa vendeva crauti e brovada dentro ad ampi catini di legno. Le chiazze di salamoia per terra attorno al banco indicavano il fossato da superare per interagire con la tradizione di un mondo rurale che traballa, disperso e ignorato tra milioni di interconnessioni digitali e nuove forme di controllo sociale. Il campo rurale è destinato a scomparire, con esso l’ignoranza che l’ha contraddistinto nei secoli, la violenza di chi l’ha subito e la bontà di chi l’ha raccontato. L’annullamento dello spirito di adattamento stroncherà ogni possibilità di rivolta, sempre che in giro se ne senta ancora il bisogno.

Ora che è autunno ed esco con gli stivali mi sembra di dare il giusto peso ai miei passi, sento su di me tutto quello che devo sentire. Mi viene in mente una sola parola, equilibrio, che vorrei avere ora, che vorrei avere da sempre e che non sono mai riuscito a conquistare.

Dopo il mercato Drago aveva continuato la sua camminata in direzione della fortezza a strapiombo sul mare, camminando sulle mura per vedere il mare dall’alto, la risacca sulla spiaggia, la schiuma delle onde che si dissolve sulla battigia, qualcuno che passeggia con il cane. Davanti a lui un non ben identificato infinito lo faceva innamorare della luce, delle rocce, del mare e degli arbusti che nascono in mezzo alle pietre del bastione veneziano. Tutto questo serviva per dimenticare gli spari, le urla, altri spari e poi il silenzio. Avrebbe voluto bere di più quella mattina, ma un dolore al centro del petto l’aveva fatto desistere.

La notte i sogni lo costringono a chiudersi come una conchiglia, il letto diventa scoglio e lui filtra la notte, la setaccia sognando tutto quello che teme, come il mare in tempesta, le comete che ha visto passare una volta, le mani di suo padre. Sogna i frammenti di una vita passata che è rimasta condensata nella sua mente e non riesce a disfarsene, nei sogni rivive la sua adolescenza, l’imbarazzo di vivere, l’incapacità di sopravvivere a tutto quello che è stato fatto e che non si potrà mai cambiare in nessun modo. Tutte le vigliaccherie, le fughe, ma anche i momenti d’ira, la furia distruttiva, i silenzi, gli interventi a sproposito, le battute venute male, tutte le volte che ha perso tempo ubriacandosi.

Ha sempre sentito come una mancanza pneumatica all’altezza dello stomaco, ma non era la fame, era la frustrazione derivante dall’incapacità di essere altro, avrebbe potuto essere fedele all’idea di un mondo migliore come Dalibor, credere ad una possibilità di redenzione dalla slavina inarrestabile che sentiva arrivargli addosso ogni volta che si incamminava verso prospettive indomabili. Ma la redenzione non è mai arrivata, si è sempre trattato solo ed esclusivamente di slavine.

Ora che forse tutto sta per finire, ora che l’ignoto sta per impossessarsi di tutte le vite, compresa la sua, è come se fosse giunta una pacificazione, come se per la prima volta si stesse realizzando concretamente la fine di qualcosa, come quando dalle montagne sul mare arrivava l’inverno. Quandero bambino abitavo nellentroterra, con i miei vicini di casa vedevamo i lupi scendere dal crinale in cerca di cibo, li osservavamo correre cautamente in mezzo alla neve fresca al riparo dietro il vetro della casa di mio padre. Eravamo al sicuro, eravamo nel posto giusto per osservare il mondo. Con il tempo però ci siamo trasferiti a valle in cerca di lavoro e istruzione. Io ho proseguito la caduta andando a vivere sul mare, sono come rotolato, dalla cima della montagna in cui andava tutto bene a Novi Jadran dove tutto inizia ad andare bene solo dopo aver consumato tutte le cattive abitudini delle ore notturne che rendono questi occhi, occhi per stupirsi.

Del lupo mi ha sempre affascinato il suo incidere sul terreno, che sia solitario o in branco, è un incidere sicuro di sé, attento, presente, razionale, senza inciampi o improvvisi cambi di rotta, definito da uno scopo e, alloccorrenza, fedele allinteresse collettivo. Mi sarebbe dovuto essere desempio in qualche modo per difendermi da me stesso, da tutto questo nuotare contro la vita in modo casuale e improvviso, da tutto questo protendere verso il vuoto senza nessun appiglio di sicurezza, spandendomi come un liquido denso, un frappè alla vaniglia versato sul pavimento. Invece non è servito a nulla, sono cresciuto altro e mi crogiolo spesso in molte scuse che mi do, nelle mille attenuanti alla vita, giustificazioni per le mie assenze. Quando manco, quando non vado, quando sparisco, mi dico sempre che sono gli altri, è da sempre colpa di qualcuno se non faccio mai quello che prometto, ma la misera verità è unaltra, la verità è che sono io il mio nemico.

 

Dopo mesi di annunci sui media il giorno è arrivato. Una volta finito il turno in un bar completamente vuoto da apertura a chiusura, Elvis non ha abbassato la saracinesca e si è messo fuori ad aspettare. Lina non è andata a lavorare ma è passata comunque da lì. Lui l’aspettava con una borsa piena di birre, la sigaretta in bocca e gli occhiali da sole. In strada non c’era nessuno, erano tutti scappati nell’entroterra, radio e Tv dicevano che rimanere nelle città costiere fosse pericoloso. Insieme erano andati a chiamare Drago, passando davanti al portone della casa di Dalibor avevano visto l’avviso – appartamento sottoposto a sequestro a disposizione dell’autorità giudiziaria – leggermente bagnato dall’umidità della mattina, un’umidità novembrina mista alla salsedine che rendeva tutto viscido e appiccicoso. Drago era uscito di casa e con un’espressione stravolta aveva chiesto subito una birra ad Elvis, si era scambiato il pungo contro pugno con Lina e si erano abbracciati.

Durante la loro camminata verso il bastione sul mare, Drago comandava la carovana, aveva finalmente trovato il suo branco. Se avesse dovuto morire che fosse stato sul mare, lo sguardo fisso all’orizzonte, niente montagne a ostacolare le vista, voleva vedere l’infinito. Adesso o mai più, si ripeteva, adesso o mai più. L’ultima volta che era stato al bastione era poco dopo l’omicidio  di Dalibor, adesso l’ansia è diversa, adesso ha delle certezze, respira la fine che ha l’odore della carne fresca appena macellata, del sangue nei catini di raccolta.

Si guardavano in giro, le case erano chiuse, alcuni avevano inchiodato delle tavole di legno alle finestre, con quale senso logico non riuscivano a determinarlo. Le strade vuote, non c’erano nemmeno i cani, che avessero fiutato qualcosa?

Lina, Elvis e Drago parlavano amorevolmente di cinema, Drago aveva appena finito di scrivere una trilogia sulla frontiera, stava solo aspettando una risposta dagli americani, ma chissà se questa risposta arriverà mai. Recentemente aveva iniziato una retrospettiva su Lav Diaz, un regista filippino che fa film dalla durata media di sei ore:

– Ne ha fatto anche uno da nove ore.-

– E tu l’hai visto Drago?-

– No quello non ancora, vediamo come va il mondo, se prossimamente troverò nove ore libere, quelle saranno per il cinema. –

– Nove ore, praticamente un turno al bar.-

– Elvis, sei sempre così… hai l’empatia di un mattone. Digli qualcosa Drago!-

– Guardate, guardate!-

Una volta arrivati sul bastione la spiaggia sotto era estesa fin dove la vista riusciva a vedere: si espandeva verso lorizzonte a perdita d’occhio. L’acqua si era ritirata e la si riusciva a vedere solamente molto più là, in mezzo al mare, ma solamente di riflesso. I gabbiani volavano a cerchio sopra le loro teste, garriti di terrore riempivano tutti gli spazi possibili comprimendo il suono e rendendo l’aria satura di lamenti. Piano piano all’orizzonte si intravedeva la luce del sole, probabilmente sarebbe stata fissa così per mesi. Il vento di bora di inizio novembre li inondava in tutta la sua potenza, salivano le aspettative, la brama di sapere cosa sarebbe successo, il crollo o l’inizio di un modo nuovo di vivere. Che storia si sarebbe potuta raccontare quindi, da ora in poi?